Il signor diavolo di Pupi Avati

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Il signor diavolo di Pupi Avati

Recensione di Gordiano Lupi

Regia: Pupi Avati. Soggetto: Pupi Avati (romanzo omonimo). Sceneggiatura: Pupi Avati, Antonio Avati, Tommaso Avati. Fotografia. Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Effetti Speciali: Sergio Stivaletti. Scenografia: Giuliano Pannuti. Costumi: Maria Fassari, Luana Piervenanzi, Marina Tardani. Trucco: Elisabetta Flotta. Colorazione Digitale: Ivan Tozzi. Suono: Pompeo Iaquone, Andrea Doni, Emanuele Giunta. Assistenti alla Regia. Mariantonia Avati, As Chianese, Carla Bernardin. Musiche: Amedeo Tommasi. Produttori: Antonio Avati, Pupi Avati. Case di Produzione: Due A Film, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Genere: Horror. Durata: 86’. Interpreti: Gabriele Lo Giudice (Furio Momenté), Filippo Franchini (Carlo Mongiorgi), Massimo Bonetti (Giudice Malchionda), Alessandro Haber (Padre Amedeo, l’esorcista), Gianni Cavina (Sagrestano), Lino Capolicchio (Don Zanini), Eva Antonia Grimaldi (madre di Paolino), Chiara Caselli (Clara Vestri Musy), Andrea Roncato (dottor Rubei), Cesare S. Cremonini (Padre Carlo), Ludovica Pedetta (l’infermiera Laura Poli), Ariel Serra (Liù Quinterno), Lorenzo Salvatori (Emilio), Enrico Salimbeni (giocatore), Fabio Ferrari (Alberto Collatina), Chiara Sani (Maria Mongiorgi, madre di Carlo), Iskra Menarini (Dolores), Alessandro Stucci (operaio), Claut Riccardo (Paolino Osti), Luigi Monfredini (maresciallo dei carabinieri), Emilio Martire (brigadiere Giardina), Alberto Rossi.

Pupi Avati ritorna alle atmosfere dei suoi primi horror gotici e padani – La casa dalle finestre che ridono, Zeder, Le strelle nel fosso – tanto care agli appassionati del cinema di genere degli anni Settanta e fa centro, forse perché ambienta l’opera in luoghi e tempi che conosce bene, come la campagna veneta degli anni Cinquanta. Il 2018 è un anno importante per Pupi Avati: ottant’anni di età, cinquanta di carriera, guest director del Torino Film Festival, autore di un romanzo gotico come Il signor diavolo (Guanda) che è alla base del suo ultimo film.

Il signor diavolo è strutturato per flashback concatenati, vede protagonista un imbranato ispettore del ministero (Lo Giudice) incaricato di seguire l’andamento di un delicato processo che potrebbe danneggiare la Democrazia Cristiana, visto che una potente signora veneta in grado di spostare molti voti chiede giustizia per il figlio ucciso. Tutto il mistero ruota attorno a un omicidio compiuto da Carlo (Franchini), un ragazzino di quattordici anni, ai danni di Emilio (Salvatori), un essere nato deforme di cui si narra che avrebbe sbranato la sorellina. La storia a tinte cupe è narrata a metà strada tra superstizione e horror viscerale, perché tutto potrebbe essere frutto di arcane credenze come di reali presenze demoniache. La scelta sta allo spettatore, visto che Avati racconta in soggettiva e spesso lascia intendere che le voci maligne e soprannaturali potrebbero essere soltanto un’illusione. Carlo era grande amico di Paolino Osti (Claut), morto in strane circostanze dopo aver calpestato un’ostia durante un’eucarestia perché spinto dal perfido Emilio. C’è chi parla di maledizione invece che di grave malattia, ma Carlo fa tornare in vita lo spirito di Paolino facendo mangiare l’ostia a un verro, per poi pentirsene e raccontare tutto ai genitori. Il verro viene ucciso dal padre di Carlo, subito dopo massacrato dai denti di una bestia furiosa, per cui è naturale pensare a Emilio, che si manifesta per minacciare Carlo e viene da lui ucciso con un colpo di fionda in un occhio. Tutto si confonde tra superstizione e religione in un Veneto baciapile e cupo, povero e contadino, dove il Diavolo viene chiamato Signore perché la gente cattiva va trattata bene, con rispetto, come dice un inquietante sacrestano (Cavina). Il finale della pellicola è molto cinematografico, non segue le stesse indicazioni del romanzo, anche se entrano in gioco un inquietante esorcista (Haber) e un pavido medico legale (Roncato). Alla fine scopriamo che il vero maligno risiede proprio nella chiesa, visto che il vecchio prete (Capolicchio) e il sacrestano conoscevano bene la storia di Emilio e della sorellina sbranata. Doppia soluzione, come negli horror migliori, tra naturale e soprannaturale, con il sacrestano e Carlo che rinchiudono nella cripta della chiesa uno stralunato ispettore mentre pare che Satana sia ancora presente.

Pupi Avati afferma che per lui è come chiudere un cerchio, perché quando si diventa anziani molte delle cose che ti piacevano da ragazzo tornano a sedurti. In effetti Avati torna su antiche strade – per la precisione nelle Valli di Comacchio – ritrova vecchi attori (Capolicchio, Cavina, Haber) e cerca di capire come faceva a spaventare il pubblico quasi cinquant’anni fa. Una macchina da presa molto agile, una troupe molto leggera, la possibilità di riprendere quel che succedeva in tempo reale, senza le complicazioni di una macchina immensa, confida Avati, contento di tornare a fare cinema dopo anni di televisione, troppo condizionata dalle regole degli ascolti. Quel che è certo è che in televisione una storia truce come Il signor diavolo non si sarebbe potuta raccontare con la libertà narrativa che consente il cinema, dove è ancora possibile parlare del male e raffigurarlo con fattezze oscene e atteggiamenti efferati (la bambina sbranata nella prima orribile sequenza, i denti da cinghiale dell’essere mostruoso). Avati parla del diavolo, del maligno, di una figura rimossa nell’immaginario collettivo, un’entità che proviene dalle campagne della sua infanzia, dai narratori di favole che raccontavano storie solo per il gusto di spaventare.

Il signor diavolo è ambientato tra Roma e la Laguna di Venezia, nell’autunno del 1952, in pieno potere democristiano, nelle campagne di un Veneto superstizioso e cattolico, dipinto benissimo grazie a una sceneggiatura efficace, realizzato a tinte cupe per merito dei credibili effetti speciali di Stivaletti. Fotografia straordinaria del grande Cesare Bastelli, storico collaboratore di Avati, in quattro colori, anticata, che riconduce alle atmosfere campestri degli anni Cinquanta, arricchita da meravigliosi tramonti lagunari e da languide cartoline veneziane. Montaggio accurato di Ivan Zuccon che conferisce ritmo e suspense a una pellicola che fa della tensione la sua arma migliore. Musiche inquietanti di Amedeo Tommasi, in perfetta sintonia con la storia. Regia esperta e sicura, capace di guidare giovani attori con destrezza e di seguire i personaggi con soggettive tenebrose e panoramiche che allargano il campo su casupole lagunari e campagne brumose. Ottimi gli attori, persino i giovani interpreti alle prime armi se la cavano bene, così come Gabriele Lo Giudice si rivela – sulla lunga distanza – un’ottima scelta come problematico protagonista che proviene da un’infanzia difficile. Fa molto piacere rivedere all’opera gente esperta come Capolicchio, Cavina, Haber e Roncato, pilastri della factory avatiana, sia pure in brevi ruoli, quasi a livello di cameo, anche se Cavina nel finale è determinante.
Il signor diavolo è la pellicola più visceralmente horror dell’intera filmografia avatiana, più cupa e spaventosa di Zeder e de La casa dalle finestre che ridono, trascina lo spettatore in un crescendo di orrore e in una spirale di angoscia. Tra le molte recensioni entusiaste che hanno accompagnato il ritorno alle atmosfere nere degli esordi, citiamo il solo Fabio Canessa (Il Tirreno), che giudica il film da non perdere: “Quarant’anni dopo La casa dalle finestre che ridono, Pupi Avati torna all’horror, mescolando sacro e profano, preti ambigui e bambini disturbati, inserendo lampi metafisici nella materialità della campagna veneta: un’ostia della prima comunione finisce calpestata e un’altra inghiottita da un maiale insieme al pastone, una fionda giocattolo lancia un sasso omicida, una neonata viene uccisa a morsi dal fratellino, un bambino morto sembra tornare dall’aldilà. Lo spettatore, portato per mano in un’implacabile discesa agli inferi, si trova imprigionato in un finale nerissimo e Avati fa di tutto per spaventarlo a morte, innestando Satana nelle radici dell’Italia contadina”.

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