Il cinema horror secondo Umberto Lenzi

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Di Gordiano Lupi

Umberto Lenzi si avvicina al cinema horror negli anni Ottanta, dopo aver sperimentato gli altri generi popolari come l’avventuroso, il peplum, lo storico, il thriller erotico, il poliziottesco, i Tomas Milian movies, un fumetto movie come Kriminal e persino il sottogenere cannibalico. Non possiamo dire che l’horror sia il genere preferito dal regista massetano, ma è anche vero che una volta cominciato a fare cinema de paura ha continuato per oltre un decennio con ottimi risultati.

Se confiniamo i cannibal movies nel sottogenere che contamina horror e avventuroso, dobbiamo dire che il primo horror puro di Lenzi è Incubo sulla città contaminata (1980). Il regista dice che questo film gli fu proposto come una classica pellicola di zombi, ma lui la trasformò in un horror ecologico, imperniato su una contaminazione nucleare che trasforma le persone in creature mostruose bisognose di sangue per sopravvivere. “La sceneggiatura di Incubo era una vera schifezza e io la dovetti rielaborare per intero” afferma Lenzi.

Incubo sulla città contaminata nasce da un soggetto molto essenziale di Antonio Corti, sceneggiato da Piero Regnoli e José Luis Delgado, fotografato in modo cupo e angosciante da Hans Barman, montato con professionalità da Eugenio Alabiso e che si giova delle scenografie deserte di Mario Molli. Stelvio Cipriani merita una menzione a parte perché la musica ossessiva e tenebrosa introduce bene lo spettatore in un crescendo di terrore. Ottimo anche il trucco di scena per gli uomini contaminati che è opera di Giuseppe Ferranti e Franco Di Girolami. La produzione è italo spagnola ed è diretta da Diego Alchimede per Dialchi Film di Roma e Lotus International di Madrid. Gli interpreti sono senza infamia e senza lode, ma d’altra parte in un film sulla falsariga di una storia di zombi non è facile mostrare grandi capacità recitative. Il ruolo principale è di un inespressivo Hugo Stiglitz, il giornalista televisivo Dean Miller incaricato di realizzare un servizio all’aeroporto del terrore dove sbarcano i contaminati. Laura Trotter è la moglie Ann Miller (e non Sheyla come equivoca Giusti su “Stracult”), primario ospedaliero che cerca di debellare la contaminazione. Maria Rosaria Omaggio è la bella scultrice Sheyla che viene orribilmente uccisa dopo essersi trasformata in una contaminata. Sonia Viviani è un’amica di Sheyla che si vede per lo spazio di un paio di scene, ma appena in tempo per assistere a una macabra estrazione del suo bulbo oculare praticata da un essere mostruoso che impugna un coltellaccio. Mel Ferrer è il generale Murchinson che coordina le operazioni e cerca di arginare il pericolo di invasione da parte degli uomini mostruosi. Francisco Rabal è il maggiore Warren che ricordiamo per un sensuale rapporto erotico con una sexy Maria Rosaria Omaggio in apertura di film. Altre presenze minori sono Eduardo Fajardo, Stefania D’Amario, Ugo Bologna, Manolo Zarzo, Sara Fianchetti e Tom Felleghy.

Quentin Tarantino ha detto che secondo lui in questo film gli zombi si muovono troppo in fretta rispetto a quelli di Romero, ma ha fatto bene Lenzi a precisare che i suoi personaggi non sono zombi, ma uomini contaminati da radiazioni nucleari. In realtà sarebbero una sorta di vampiri perché devono bere sangue umano per sopravvivere. Il loro compito è quello di uccidere dopo aver aggredito con roncole, bastoni, coltelli e quindi dissetarsi dalle ferite aperte delle vittime. La produzione volle una caratterizzazione fisica simile a quella degli zombi (forse per cavalcare una moda) ma in realtà la variazione sul tema prodotta da Lenzi è molto originale. Questi esseri orribili hanno il volto carbonizzato, sembrano uomini bruciati dal fuoco, si muovono rapidamente e aggrediscono spinti da una fame atavica. Lenzi ha diretto Incubo sulla città contaminata in primavera, prima di Cannibal Ferox che è stato girato in novembre-dicembre. Secondo Marco Giusti pare che il regista designato per fare Incubo fosse Enzo G. Castellari, ma Umberto Lenzi smentisce con decisione: “A me non risulta. Credo che sia un’ennesima leggenda metropolitana”.

Il clima da pellicola fantahorror è molto evidente. Tutto comincia con una fuga di gas radioattivo dalla centrale nucleare di Stato e con l’arrivo del professor Andersen all’aeroporto. La troupe televisiva attende l’Hercules militare che sbarca su una pista il suo orribile contenuto di uomini mostruosi che massacrano e si cibano di sangue umano. La città è invasa da mostri contaminati che proliferano con il contatto del sangue e intanto altri aerei portano nuovi pericoli. Il governo cerca di mantenere il segreto e affida all’esercito il compito di debellare la minaccia, ma l’impresa è quasi impossibile. Vediamo l’incursione dei mostri assassini in uno studio televisivo dove fanno strage di ballerine a colpi di mazze e coltelli. Le sequenze sono molto efferate e una musica intensa contribuisce al clima angoscioso tra cadaveri squartati e teste sfracellate. Il tema zombesco è seguito abbastanza fedelmente perché le persone ferite dai contaminati subiscono la stessa mutazione genetica. I medici scoprono che non si tratta di alieni, ma di esseri umani radioattivi dalle cellule indistruttibili che contaminano le vittime con il contatto sanguigno. Si fermano solo sparandoli nel cervello o bruciandoli vivi e pure in questo è evidente la similitudine con gli zombi. Lenzi dà vita a un horror originale (e in tema di zombi non è facile) perché riesce a fare un discorso ecologista e antinucleare su un tema sfruttato. Il problema delle centrali nucleari era molto sentito negli anni Ottanta e in molte città italiane si tennero referendum sulla opportunità o meno di passare a quella pericolosa forma di energia. Il regista sa creare ottime situazioni di suspense che sono il sale del cinema dell’orrore. Tanto per citare alcuni esempi ricordiamo Maria Rosaria Omaggio che resta sola in casa mentre la falciatrice comincia a muoversi da sola nel giardino, subito dopo una sua statua è accoltellata e dal suo volto cola sangue. Uno zombi spia una coppia in piscina, taglia i fili del telefono e quindi colpisce, in un trionfo di musica sintetica che sottolinea i momenti cruciali. Lo schema su cui si sviluppa il film è quello del canovaccio zombesco che prevede un crescendo di vittime, uccise nel modo più atroce e spettacolare, schizzi di sangue ed eccesso di splatter e gore senza limiti. La cosa nuova di questi esseri contaminati rispetto agli zombi è che colpiscono con armi bianche (stile serial killer) e subito dopo si cibano di sangue mordendo la preda al collo. La parte che Lenzi realizza all’interno dell’ospedale è un vero capolavoro di effetti speciali e di situazioni da antologia per film del genere. Le uccisioni si fanno più efferate e i pasti vampirici si moltiplicano, mentre il giornalista e la moglie se ne stanno nascosti per evitare problemi. La sequenza dell’ascensore è ancora più orribile e disturbante, quando viene mostrato senza nessun pudore il massacro scioccante delle persone che erano rinchiuse. Ben fatta anche la sequenza che mostra la mutazione sul bel volto di Maria Rosaria Omaggio, anticipata da un’orribile scultura accoltellata. L’amante deve ucciderla con un colpo di pistola alla testa che produce schizzi credibili di materia cerebrale. Prima ancora vediamo la scena cult di Sonia Viviani accecata da un contaminato che – in un trionfo di gore – scava senza pietà con un coltello nel suo bulbo oculare. In mezzo a questo eccesso di omicidi descritti senza ironia ma con freddezza e gusto per il particolare, il regista lancia precisi messaggi contro il consumismo e la società contemporanea. Un’altra scena da ricordare si svolge in chiesa dove anche il prete è stato contaminato e tenta di uccidere i coniugi Miller con un crocifisso. La parte finale si svolge in un infernale Luna Park disseminato di cadaveri con corpi di uomini, donne e bambini orrendamente sgozzati. I contaminati assediano i Miller sulle Montagne Russe e vengono uccisi uno dopo l’altro con fucilate al cranio. Un elicottero della polizia salva il giornalista, ma la moglie precipita e muore sfracellata al termine di una sequenza raccapricciante. A questo punto Miller si risveglia nel suo letto e comprendiamo che quanto abbiamo visto è stato solo un terribile incubo. Immancabile il doppio finale che si svolge all’aeroporto. Il giornalista attende l’arrivo dell’aereo per intervistare il responsabile della centrale dove è avvenuto l’incidente ed è a quel punto che l’incubo diventa realtà.

Il film è notevole anche perché rappresenta una contaminazione di generi senza precedenti, visto che al suo interno troviamo tracce di cinema fantascientifico, postatomico, splatter, gore, horror puro, sottogenere zombi e film di vampiri. Le scenografie scarne di Mario Molli introducono un elemento postatomico nella pellicola, perché quando il giornalista e sua moglie fuggono pare di assistere alla fuga di due superstiti braccati dalla nuova stirpe dei contaminati. Inutile aggiungere che la cosa migliore del film sono gli effetti speciali e che le parti splatter e gore sono molto ben realizzate. Non condivido per niente il giudizio di uno sprezzante Mereghetti che nel suo Dizionario definisce il film come “un gore apocalittico diretto con una tremenda approssimazione”. Il critico milanese aggiunge che “la pellicola è impresentabile”, “i trucchi sono da quattro soldi” e per finire che “la musica di Stelvio Cipriani è brutta”. Tutto il contrario di quello che ho cercato di dimostrare. Pino Farinotti invece parla di una pellicola con “un diffuso senso di già visto” e anche qui non mi trovo d’accordo perché il film di Lenzi gode di una sua precisa originalità. A mio parere, Incubo nella città contaminata ha influenzato pure il bel remake L’alba dei morti viventi girato da Zack Snyder nel 2004, infatti pure in questa pellicola gli zombi sono uomini contaminati da radiazioni e si muovono velocemente per colpire.

Nightmare beach (1988), noto anche come La spiaggia del terrore è un thriller poco visto di ambientazione statunitense che Lenzi contamina con alcune atmosfere horror. Tra l’altro il regista maremmano non risulta nemmeno citato nei titoli, dato che Henry Kirkpatrick non è un suo pseudonimo anglofono (come molti critici sostengono), ma il nome dello sceneggiatore. Nightmare beach è una pellicola che Lenzi ha ripudiato e a questo proposito è utile leggere le dichiarazioni che mi ha rilasciato.

Henry Kirkpatrick è lo pseudonimo di uno scrittore  americano, autore della sceneggiatura del film (orrenda), e che lo firmò quando il sottoscritto – a riprese pressoché ultimate – lasciò il film (di produzione americana) – per dissapori con il produttore. Il film fu massacrato al montaggio, con tagli e aggiunte stupide in fase di post produzione. Secondo gli accordi, io avrei dovuto dirigere un altro film (su mia sceneggiatura originale), ma una volta arrivato a Miami, il produttore, pressato da un importante personaggio molto interessato ai  suoi progetti,  mi pregò di girare  questo thriller senza capo né coda. Il  soggetto era di Vittorio Rambaldi e il film  avrebbe dovuto girarlo lui come opera prima. Anche gli attori (tre cani spaventosi) erano stati scelti da loro, prima che io arrivassi. Finì che Rambaldi realizzò un film tratto dalla mia storia sulla contaminazione genetica, che venne completamente stravolta da lui e dal Kirkpatrick in sede di riscrittura della  sceneggiatura. Ne risultò ovviamente un film brutto e banale. Io chiesi e ottenni di togliere il mio nome da Nightmare beach. Solo che  oggi il film viene distribuito ovunque con il mio nome sulla copertina dei DVD e delle VHS. I mercanti di film sono imbattibili!”.

Nightmare beach, secondo i titoli di testa, è scritto da Vittorio Rambaldi e sceneggiato da Henry Kirkpatrick, mentre Lenzi cura solo la regia (ma non è accreditato e i titoli parlano di Kirkpatrick) e si avvale della fotografia di Antonio Climati e della bella musica di Claudio Simonetti. Interessanti gli effetti speciali che strizzano l’occhio al gore e allo splatter e sono ben realizzati da Alex Rambaldi. Interpreti: Nicholas De Toth (Skip), Michael Parks (il dottor Willet), Rawley Valverde (Ronnie), Sarah Buxton (Gail), Lance Le Gault (il reverendo Bates), Tony Bolano (Diablo) e John Saxon (il poliziotto Strycher).

Il film è costruito sullo schema delle pellicole televisive come Baywatch e Miami Beach, tra esibizioni di belle ragazze in vesti discinte, giornate in spiaggia, uomini che fanno i galletti in discoteca, musica anni Novanta, con spruzzatine di sesso ed esibizioni a base di tette scoperte per deliziare il pubblico statunitense. Lenzi svela anche molti trucchi del cinema horror ricorrendo a un personaggio che si diverte a inscenare stupidi scherzi e a fingersi morto nei modi più orrendi. Vediamo un finto cadavere nel sangue della piscina, un trucco da falso squalo, un coltello piantato su una mano di plastica e la finzione di un corpo bruciato. Il protagonista dei macabri scherzi alla fine muore davvero, vittima del killer che lo elettrizza con i fili della corrente. Si parte da un antefatto con il presunto assassino Diablo (un motociclista della banda dei Demoni) giustiziato sulla sedia elettrica. La storia è ambientata nella località turistica di Springbreak e racconta di un serial killer motociclista che uccide studenti, villeggianti e personale di un albergo durante le vacanze. Non si vede mai il suo volto perché è sempre coperto da un casco di colore nero e si pensa che si tratti di Diablo, condannato ingiustamente, che torna dall’inferno per vendicarsi. In realtà non c’è niente di soprannaturale, ma il colpevole è il reverendo Bates che combatte una folle guerra per moralizzare i costumi. I personaggi sono macchiette fumettistiche che mancano di spessore psicologico, soprattutto i tre ragazzi protagonisti. Nicholas De Toth (Skip), Rawley Valverde (Ronnie) e Sarah Buxton (Gail) sono attori di bella presenza, ma dotati di scarse qualità recitative. Una sceneggiatura e dei dialoghi davvero scadenti fanno il resto, perché il soggetto sarebbe anche di un certo interesse, se fosse realizzato con maggiore cura e inserendo più tensione nelle scene fondamentali. Resta solo una trama giovanilistica con un pizzico di giallo e diverse morti per folgorazione che il killer motorizzato esegue con cadenza quasi monotona. Pochi i momenti degni di nota, come la sequenza di un occhio estirpato per mezzo di cavi elettrici e una scena ad alta tensione all’interno dell’albergo, quando una squillo di lusso viene uccisa dentro l’ascensore. Lenzi è bravo a disseminare di elementi orrorifici una pellicola che in definitiva è soltanto un giallo realizzato con molti effetti speciali. Tra gli attori salverei l’esperto John Saxon nei panni dello squallido poliziotto Strycher che conserva in casa le foto dei morti e non esita a mandare sulla sedia elettrica un innocente pur di consegnare alla giustizia un colpevole. Va da sé che pure il suo personaggio è molto fumettistico e anche il suo odio immotivato verso la banda di giovani non ha ragione di esistere. La trama zoppica anche quando il poliziotto e il medico decidono di non rendere note le uccisioni di giovani e seppelliscono il cadavere della prima vittima in un luogo isolato. Nel finale mi è venuto a mente Non si sevizia un Paperino di Lucio Fulci (1972): anche in quel film scopriamo che il prete è il colpevole dei barbari assassini. Le motivazioni però sono diverse. Nel film di Fulci il parroco (Marc Porel) vuole evitare ai ragazzini di crescere e di corrompersi, mentre nel lavoro di Lenzi il reverendo Bates (Lance Le Gault) elimina per vendetta chi vive un’esistenza scellerata e si comporta fuori dalla grazia di Dio. Il reverendo, per una sorta di pena del contrappasso di dantesca memoria, finisce elettrizzato dai fili della corrente e muore folgorato a bordo della moto. Nicholas De Toth (Skip) e Sarah Buxton (Gail) possono coronare il loro amore mentre l’estate volge al termine e la spiaggia pare “uno stadio al termine di una partita”. Una pellicola senza infamia e senza lode, che si può ancora guardare per merito di alcune parti orrorifiche che ricordano il miglior cinema di Lucio Fulci.

La casa 3 – Ghosthouse (1988) è forse l’horror cinematografico più riuscito di Umberto Lenzi, pure se il titolo trae in inganno perché la pellicola non ha niente a che vedere con La casa 1 (1983) e 2 (1987) di Sam Raimi. Tutti sappiamo che il vero sequel de La casa 2 è L’armata delle tenebre (1992), diretto sempre dal regista statunitense, mentre il ciclo apocrifo de La casa è un’idea geniale di Aristide Massaccesi che con la Filmirage produce tre film diretti da Lenzi, Laurenti (1989) e Fragasso (1990) che sfruttano il successo di Raimi.

La casa 3 è un film scritto e sceneggiato da Umberto Lenzi che per la stesura dei dialoghi e la narrazione delle scene si avvale della collaborazione di Cynthia McGavin. Franco Delli Colli è il direttore di una fotografia cupa e inquietante, mentre la musica ossessiva è di Piero Montanari (Marco Giusti e Antonio Tentori sostengono che è di Carlo Maria Cordio ma non è vero). Effetti speciali da manuale a opera di Dan Makiansky, Robert Gould e Roland Park, ma pure il montaggio serrato di Rossana Landi e le scenografie angoscianti di Massimo Lentini valorizzano il film. Interpreti principali sono Lara Wendel e Greg Scott, ma rivestono significativi ruoli di contorno anche Mary Sellers, Kate Silver, Ron Houk e soprattutto il feticcio damatiano Donal O’ Brien.

La storia parte da un terribile antefatto che vede la piccola Henryette chiusa in cantina in compagnia del suo pupazzo a forma di clown. Il padre la punisce perché ha ucciso un gatto con le forbici e i genitori discutono sulla sua educazione, ma in quel momento vengono uccisi da oscure presenze che fanno esplodere lampade e specchi. Una mano fa cadere un’ascia sulla testa dell’uomo e un coltello trafigge il collo della donna, mentre tutto intorno esplode e i vetri vanno in frantumi. La partenza è subito molto splatter con sequenze suggestive che richiamano nenie infantili, pagliacci che sorridono inquietanti, spiriti e presenze oscure. L’atmosfera demoniaca è la sola cosa che il film di Lenzi ha in comune con La casa di Sam Raimi. Dopo l’antefatto, il regista fa un salto temporale di venti anni e ci presenta Paul e Martha (Lara Wendel e Greg Scott), una coppia di radioamatori che intercetta una voce terrorizzata. Si entra nel vivo del film quando Paul e Martha individuano la casa maledetta e sono perseguitati dal fantasma della bambina e da un pupazzo, insieme ad altri ragazzi conosciuti sul posto. La casa diventa il luogo di atroci omicidi che si fermano solo quando Paul riesce a bruciare il corpo della bambina insieme all’infernale giocattolo. Il doppio finale all’italiana riporta il mistero in primo piano, perché la maledizione pare non finire quando appare in una vetrina un pupazzo simile a quello della bambina.

Il film è caratterizzato da un ottimo uso della suspense, da una buona recitazione da parte di attori statunitensi bravi e preparati (su tutti la Wendel e Scott) e da un uso della musica infantile a fini orrorifici che ricorda certi film di Dario Argento. Donal O’ Brien (attore feticcio di Massaccesi) è ottimo nel ruolo del vecchio storpio che potrebbe essere il colpevole dei delitti, se non ci fosse una presenza soprannaturale. La casa dei delitti è cadente e abbandonata, all’interno i mobili sono coperti da lenzuola, ci sono coltelli e calendari rimasti fermi alla data dei tragici fatti. Vediamo ottime sequenze sottolineate dalla nenia infantile che annuncia i delitti, ma subito dopo esplodono bottiglie, partono scintille di fuoco, fiamme, lavatrici che si accendono da sole e all’interno mostrano un volto umano. Le apparizioni della ragazzina con il suo pupazzo – clown sono terrificanti e una volta la sua immagine viene trasmessa in televisione, un’altra si presenta con occhi sanguinanti, un’altra ancora genera fenomeni da poltergeist con gli oggetti che volano e una roulotte che si muove. Tremende le scene che mettono in primo piano omicidi soprannaturali commessi dal fantasma della bambina e dal suo pupazzo. Una pala di un ventilatore si stacca e si conficca nel collo di un ragazzo, un martello giustizia il becchino, O’ Brien finisce impiccato, un altro ragazzo sprofonda nel pavimento, si trova in mezzo alla calce viva e viene ucciso da una coltellata. Sono molte le scene caratterizzate da grande suspense introdotte dalle apparizioni della bambina che accarezza il pagliaccio ed è immersa in un fascio di luce. La bambina è morta di fame nello scantinato di quella casa, dopo che i genitori sono stati uccisi, e adesso si vendica insieme al pupazzo come un fantasma che non trova pace. Una sequenza da citare vede protagonista un’ottima Lara Wendel terrorizzata dalla comparsa di Henryette e soprattutto dal pupazzo che assume un’espressione terrificante. La stanza della bambina si trasforma in un luogo dove le presenze demoniache si danno appuntamento, i giochi infantili volano in mezzo alle piume dei cuscini e in sottofondo sentiamo una nenia infernale. Alla fine il pupazzo aggredisce e tenta di soffocare la Wendel, ma non ci riesce per il tempestivo arrivo del compagno. Il maggior difetto della pellicola sta nei dialoghi un po’ scarsi e troppo macchinosi, ma il ritmo è comunque notevole e lo spettatore assiste in un crescendo di tensione a omicidi sempre più efferati. Lo stile della pellicola è simile a prodotti come Venerdì 13, con la sola differenza che i delitti sono commessi da presenze soprannaturali e non da un folle serial killer. L’ambientazione statunitense è ben fatta, ma anche gli omicidi che si susseguono all’interno di una stessa unità di tempo e di luogo sono credibili e ricchi di effetti splatter. Il pupazzo – clown è demoniaco quanto basta e quel suo cambiare di espressione tra le braccia della bambina anticipa gli omicidi efferati e produce tensione. Lenzi scrive e realizza un horror claustrofobico che ha come leitmotiv una nenia infantile ossessiva e cantilenante, ma nel corso della pellicola non mancano rubinetti che perdono sangue, oggetti che esplodono e soprattutto una bambina fantasma che è la causa degli orrori. La storia si ispira a una vecchia leggenda sui fantasmi che non abbandonerebbero le case dove hanno perso la vita in modo violento e crudele. Un film che si caratterizza pure per un ottimo finale a colpi di suspense quando Paul brucia il corpo di Henryette appena in tempo per evitare una nuova vittima. Citiamo anche alcune ottime sequenze horror con una mano infangata, un ragno gigantesco che passeggia sul corpo di una ragazza, una mano che esce dal muro e cerca di colpire, un dobermann che terrorizza e infine una gigantesca morte armata di coltello con il teschio ricoperto da vermi. Il fuoco liberatore fa sparire tutto e il terrore sembra finito, ma come in ogni film italiano di quel periodo non è così. Il pupazzo ha ancora i suoi poteri e lo dimostrerà.

Non concordo con la misera stella concessa da Mereghetti che definisce il film “prevedibile e derivativo”, ma ritengo la pellicola degna di considerazione anche perché il regista ha saputo contaminare molti sottogeneri dell’horror. La casa 3 è un film di spiriti e maledizioni che mette in primo piano terribili omicidi soprannaturali commessi da un killer imprendibile, ma pure situazioni da Poltergeist e da bimbe malefiche.

Aristide Massaccesi produce con la Filmirage anche Hitcher 2 – Paura nel buio (1989), un altro sequel apocrifo ma questa volta di The Hitcher (1986) che Lenzi dirige con diligenza. Hitcher 2 è però uno psycothriller più che un horror e racconta le gesta di un giovane assassino che uccide le sue vittime vagando per le strade. Il film è praticamente irreperibile e non posso dare un giudizio obiettivo senza averlo visto, ma secondo alcuni critici pare che la trama sia abbastanza simile all’originale.

Torniamo all’horror puro che è il genere di nostro interesse e parliamo di un ciclo televisivo che ha come tema le case infestate, ma che per la crudezza delle pellicole girate non è stato mai trasmesso. I registi scelti per un breve ciclo di quattro film sono Lucio Fulci (La casa nel tempo e La dolce casa degli orrori) e Umberto Lenzi (La casa delle anime erranti e La casa del sortilegio). Non si poteva certo pensare che realizzassero film per bambini… Il ciclo si doveva intitolare Le case maledette e se è stato possibile apprezzarlo, lo dobbiamo soltanto alla passione dei redattori di Nocturno che hanno distribuito i quattro film nel circuito Home Video.

La casa delle anime erranti (1989) è il meno riuscito dei due lavori televisivi. La pellicola nasce da un soggetto di Umberto Lenzi che si occupa pure della sceneggiatura, la fotografia cupa e notturna è di Giancarlo Ferrando, la musica intensa e sepolcrale di Claudio Simonetti (che si firma Claude King) e il montaggio serrato dell’esperto Alberto Moriani. Segnalo gli ottimi effetti speciali curati da Giuseppe Ferranti che da soli valgono la visione del film. Produce Reteitalia con la collaborazione di Dania Film e Feature Film. Interpreti principali sono Joseph Alan Johnson, Stefania Orsola Garello, Matteo Gazzolo (che fa rimpiangere non poco il padre Nando), Laurentina Guidotti, Gianluigi Fogacci, Yamanouchi Haruhiko, Licia Colò (prima di diventare presentatrice di viaggi televisivi) e Costantino Meloni. La storia è ambientata in Valtellina, dalle parti di Bormio, in un vecchio albergo abbandonato e infestato dagli spiriti delle persone massacrate che si accaniscono su un gruppo di ragazzi. La pellicola inizia con alcune sequenze oniriche molto interessanti che mostrano le facoltà medianiche di Carla. I suoi sogni sono popolati di incubi, visioni orribili di un giapponese che colpisce una statua di Budda, uno scheletro in carrozzella, un ragno gigantesco, un bambino che cammina come un sonnambulo. I protagonisti della vicenda sono cinque studenti di geologia e un bambino che li accompagna. L’ambientazione è curata, il viaggio notturno del gruppo di amici nel bel mezzo di una tempesta di vento è sottolineato da una musica intensa che realizza un crescendo di orrore. I ragazzi alloggiano all’Hotel dell’Eremita, un sinistro albergo dove i calendari sono fermi al 1969 e il padrone è uno strano personaggio con lo sguardo fisso nel vuoto. Per questo Carla (la medium) è molto agitata, sente voci e lamenti nel corridoio, esplora le stanze in un’atmosfera di tensione sottolineata da musica lugubre. In cantina ci sono ragnatele gigantesche e un vecchio televisore trasmette le immagini di un delitto avvenuto nell’albergo: un folle uccide una donna e un bambino a colpi di mannaia. Subito dopo la televisione esplode e la ragazza grida terrorizzata. Un’altra sequenza interessante vede Mary finire rinchiusa in un freezer dove pendono dai ganci due cadaveri, ma per fortuna i compagni riescono a salvarla. In camera di Gianluca (il bambino) cade sangue dal soffitto e ragni giganteschi (una costante dei film horror italiani di quel periodo) lo aggrediscono mentre lui grida terrorizzato. Sono tutti episodi misteriosi che sconvolgono il gruppo di amici, ma il momento più debole del film comincia quando Guido fa il saccente e dà il via a una serie di pessimi dialoghi sull’autosuggestione. L’albergo è terrificante: i telefoni sono staccati, le camere si presentano nel più completo abbandono, pendono ragnatele da ogni angolo e solo le stanze dei ragazzi sono abitate. Nel parco dell’albergo si trova ancora sangue e pure un medaglione datato 1969 che contribuisce a infittire il mistero. Quando Kevin e Massimo vanno in paese e si separano dagli altri si verificano i primi tragici eventi. Carla rivede la scena del folle che ha ucciso una donna e il suo bambino, grazie alle sue facoltà medianiche capta brani di realtà sotto forma di messaggi che vengono dal passato. Il primo a morire è Gianluca che viene ingannato dal fantasma del bambino morto, sale in soffitta dove vede un pupazzo meccanico e il bambino che piange. Orribile la fine di Gianluca che finisce con la testa mozzata nella lavatrice in un crescendo di effetti speciali ben realizzati. La testa del bambino viene staccata di netto e questa sequenza splatter è una delle cose migliori della pellicola. Kevin (il pessimo attore Matteo Gazzolo) intanto apprende la verità su quello che tutti chiamano l’hotel degli orrori. Licia Colò, nei panni di una giornalista televisiva (quello che diventerà nella realtà), racconta che il padrone, il figlio e la nuora uccidevano gli ospiti, fino a quando non vennero arrestati. Il padre si suicidò prima del processo, il figlio e la nuora sono morti e l’albergo è stato chiuso nel 1969. La storia è avvincente e si basa sull’antica credenza che i morti per cause violente restano sotto forma di spiriti nelle case dove non hanno trovato la pace. Il problema maggiore del film sta nella recitazione degli attori, che soffrono pure la presenza di dialoghi pesanti e mal costruiti (espressioni ridondanti come: “Non ti angustiare” ne sono un esempio). Guido è il fumetto dello scettico a oltranza e non è per niente credibile come personaggio, così come Kevin è la caratterizzazione surreale dell’eroe che non si ferma di fronte a niente. Il personaggio meglio riuscito è quello della medium, che continua a vedere delitti orribili come quando appare il padrone e con la scure uccide un monaco buddista. Il film assomiglia a uno Shining italiano, sia per l’albergo in montagna che per il tema portante degli spiriti che colpiscono. Le aggressioni continuano e c’è l’occasione per citare Psycho con una scena di coltellata nella doccia alla quale segue una testa mozzata da un colpo di scure. La seconda vittima è Mary. Kevin scopre che le teste delle vittime dei folli assassini non sono mai state ritrovate ed è quello il motivo del crescendo di terrore. I morti sono senza pace tra le mura dell’albergo. La suspense è la cosa migliore del film che prosegue tra teste mozzate che cadono, auto che non partono, bambini fantasma che ossessionano. La casa è infestata e ormai anche i più scettici se ne sono accorti perché i morti compaiono a ripetizione e inseguono i vivi. Guido viene bloccato da una tagliola, Carla scappa da chi la tormenta, una mano saponificata tenta di catturarla, la testa di Mary cade in auto e la terrorizza, la radio si accende da sola e parla in tedesco. Gli effetti speciali gore la fanno da padrone con Guido che si trova la testa segata in due da una lama elettrica. Quando arrivano Kevin e Massimo trovano Carla disperata ed è a quel punto che la casa si ribella ai tre superstiti. La luce scompare, esplodono le lampadine, porte e finestre si chiudono ermeticamente. Gli effetti speciali sono di alto livello: la casa esplode in più parti, la nebbia avvolge i superstiti, la doccia butta sangue invece di acqua e il fuoco si sprigiona in più punti. Kevin cerca le teste dei morti con un metal detector e alla fine le trova murate in cantina in una cassa di metallo. C’è appena il tempo per vedere la testa di Massimo ghigliottinata da una finestra e l’arrivo di tutti i fantasmi che si gettano su Carla. Kevin brucia le teste e ferma l’orrore della casa infestata dando la pace ai defunti. Il doppio finale è un marchio di fabbrica dell’horror italiano e infatti due mesi dopo vediamo Kevin e Carla che parlano della brutta avventura. “Ne siamo fuori” dicono. Non è così perché il bambino fantasma li guarda dall’alto di un palazzo. Da notare che in molti dialoghi il regista ci tiene a fare un discorso ecologista all’interno di una pellicola horror, come già aveva fatto in Incubo nella città contaminata.

La casa del sortilegio (1989) (che spesso è citato come La casa dei sortilegi) è un horror di atmosfera molto ben fatto ed è un vero peccato che abbia avuto scarsa diffusione. Il soggetto è di Umberto Lenzi che si avvale di Gianfranco Clerici e Daniele Stroppa per la sceneggiatura. La fotografia cupa e notturna è opera del diligente Giancarlo Ferrando, mentre la musica è dell’argentiano Claudio Simonetti (che si firma Claude King). Interpreti: Andy J. Forest, Maria Giulia Cavalli, Sonia Petrovna, Maria Stella Musy, Paul Muller e Alberto Frasca. La storia vede protagonista un uomo vittima di un incubo ricorrente che purtroppo per lui si trasforma in un’orribile realtà. Pure questa pellicola si caratterizza per atmosfere claustrofobiche da horror ossessivo e inquietante che vive i suoi momenti migliori nelle numerose sequenze splatter. Lenzi dirige attori ben calati nella parte, soprattutto il protagonista Andy J. Forest che tratteggia a dovere la figura di un uomo perseguitato da una strega. La pellicola è ben ambientata in una villa di campagna vicino Firenze e comincia con il sogno ricorrente di Luca, perseguitato da un’orribile strega che getta in un paiolo la sua testa mozzata. La strega è Maria Giulia Cavalli che Lenzi trucca a dovere per farla sembrare proprio una megera senza denti e dall’aspetto inquietante. Luca è un giornalista e la cognata Elsa è il medico che gli consiglia un periodo di riposo, ma pure la moglie Marta decide di andare in campagna per recuperare un matrimonio che va male. Il viaggio in auto verso la casa dove passeranno le vacanze vede subito una bella sequenza splatter con uno spettacolare incidente d’auto e due uomini che muoiono nel fuoristrada. La casa dove Luca e Marta decidono di vivere per un certo periodo è la stessa casa che da sei mesi appare in sogno al marito. Il padrone è un pianista inglese cieco che vive là insieme alla nipote Sharon e ci immergiamo nel mistero quando lui parla di un sortilegio legato a quel posto. Poco dopo chiarirà che venti anni prima dentro alle pareti della casa trovarono lo scheletro di una giovane donna del 1600: le ossa di una strega. Il film è un horror soprannaturale, una storia di streghe che tornano dal passato e Lenzi è molto bravo a creare un’atmosfera credibile. Luca vede dalla finestra di camera che la strega del suo incubo colpisce un prete con una spranga di ferro, una musica sepolcrale sottolinea l’azione, ma quando scende in giardino c’è solo un gatto nero con una zampa insanguinata. Il giorno dopo assisterà ai funerali del prete e tutti diranno che l’uomo è morto in un incidente stradale. Luca incontra Sharon, ma vede anche la moglie vagare come una sonnambula in giardino con una mano insanguinata e per questo sospetta subito di lei. Tutto il film vive di questa caccia alla strega che a un certo punto sembra essere proprio Marta, ma sarebbe troppo facile. Gli effetti speciali sono molto buoni e comprendono piume che volano, specchi che si rompono, vasi distrutti e la casa sconvolta da un vento surreale. Lenzi cita pure La visione del sabba di Marco Bellocchio (1998), film di grandi pretese ma senza dubbio peggiore di questo, pure perché troppo intellettuale. Alla villa arrivano anche la cognata Elsa e la figlia che si fa raggiungere di nascosto dal fidanzatino che sarà la seconda vittima. La notte è scossa da una fragorosa risata da strega, il ragazzo corre spaventato, incontra una civetta, sente ridere ancora e alla fine la strega lo colpisce più volte con un paio di cesoie. Il ragazzo finisce nel pozzo, mentre la strega si fa ammirare in tutta la sua bruttezza fatta di capelli bianchi e crespi, un volto raggrinzito e la bocca sdentata. Lo zio subisce un collasso, le piante della serra muoiono e resta solo puzzo di zolfo, la moglie di Luca sviene e si sospetta ancora di lei. Muore anche la figlia della cognata mentre cerca il fidanzato che le appare più volte ma è opera della strega che scatena pure assurdi fenomeni atmosferici. Un teschio oscilla come un pendolo, si odono grida, uno scheletro cattura la ragazza e la uccide con un coltellaccio. La testa della ragazza viene ritrovata mozzata nel pentolone ed è la mamma che la scopre, mentre Marta vaga per la casa con una carta insanguinata tra le mani. Altri fenomeni surreali ben descritti dal regista sono un’assurda nevicata in cantina e la ragazza che appare ancora una volta alla mamma. La prossima vittima è proprio Elsa che viene picconata al petto mentre cammina nel parco. Quando la moglie di Luca si trasforma in un gatto nero i sospetti diventano certezze e il marito è così sicuro della sua colpevolezza che la fa sbranare da un cane. Il pianista cieco si suicida con un colpo di pistola alla tempia e lascia una lettera per i carabinieri dove confessa di aver ucciso tutti lui per vecchi rancori. “La confessione è falsa” dice il carabiniere “perché nessuno crede più alle streghe”. Luca e Sharon vanno via insieme e finiscono per fare l’amore in un albergo, ma al risveglio la ragazza è sparita e l’uomo si mette alla ricerca. A questo punto Luca rivive il suo sogno che lo porta di nuovo alla casa dove in cucina trova la vera strega vicino al paiolo che non era la moglie, ma Sharon. L’incubo si avvera fino in fondo: uno scheletro con il teschio coperto da vermi decapita Luca e la sua testa finisce nel pentolone. La moglie era solo una sonnambula, mentre Sharon era la vera strega, partorita da una megera che la mise al mondo insieme a una serpe. Lo zio si era ucciso perché aveva intuito la verità e sapeva che anche la nonna di Sharon era una strega, bruciata viva nel fienile e murata dentro la casa.

In definitiva un buon lavoro televisivo che non poteva passare sulle reti Mediaset proprio per colpa dei suoi pregi migliori e delle sequenze efferate di omicidi ad alto tasso di splatter. Una chicca da recuperare per gli appassionati che godranno anche di una bella trama horror e di un’insolita e originale storia di streghe contemporanee.

Le porte dell’inferno (1989) fa parte di un altro ciclo di film televisivi intitolato “Lucio Fulci presenta” che sono usciti solo nel circuito Home Video. Il motivo per cui la produzione di Augusto Caminito e Carlo Alberto Alfieri non ha voluto utilizzarli per il piccolo schermo è sempre quello della eccessiva violenza di alcune scene e dei troppi effetti splatter. La pellicola è scritta e sceneggiata dallo stesso Lenzi che si avvale della collaborazione di Olga Pehar. La fotografia scura che ricrea un ambiente sotterraneo è di Sandro Mancori, la musica cupa e angosciante è del bravo Piero Montanari, il montaggio (un po’ fiacco) è di Vanio Amici, mentre gli effetti speciali sono di Corridori. Tra gli interpreti se la cava bene la vecchia gloria Giacomo Rossi Stuart ed è molto diligente Barbara Cupisti, ma Paul Muller, Pietro Genuardi, Gaetano Russo, Andrea Damiano e Lorenzo Majnoni sono da dimenticare. La storia racconta di un gruppo di speleologi che svolge ricerche sotterranee in una zona di campagna dove ci sono i ruderi di una vecchia chiesa sconsacrata. Giacomo Rossi Stuart è il dottor Jones che capitana la spedizione e deve guidare il gruppo nel sottosuolo alla ricerca di Maurizio che si trova in difficoltà. Vediamo anche noi gli incubi di Maurizio: un quadro di un frate che piange, un serpente, immagini orribili che si sovrappongono alle sue grida di aiuto. Alla spedizione si aggiungono due studenti che devono fare ricerche sul sottosuolo e conoscono bene la zona. “Stanno arrivando! Vogliono uccidermi!”, sono le ultime parole di Maurizio che stava leggendo Il nome della rosa di Umberto Eco e le pagine del libro mostrano ancora tracce di sangue. Il film si svolge nel sottosuolo ed è girato (a budget molto ridotto) quasi tutto in interni cupi e oscuri che provocano nello spettatore un senso di claustrofobia. Si sprecano immagini di scheletri, ragnatele, topi, ragni giganti, lampade che saltano, corti circuiti, vermi sui teschi (marchio di fabbrica fulciano) e voci orrende di morti. Gli effetti speciali sono fatti in economia ma risultano ingegnosi ed efficaci. Nella cripta dell’abbazia c’è la soluzione del mistero: sette monaci benedettini eretici per ordine di Berengario sono stati sepolti vivi nel 1289, ma le loro anime dannate risorgeranno dopo sette secoli per uccidere sette membri della progenie eretica. Siamo nel 1989, gli esploratori del sottosuolo sono proprio sette e nessuno di loro è cattolico, ma sono tutti eretici secondo la mentalità del 1300. La prima vittima è la studentessa che viene uccisa con un colpo di mannaia conficcato nel cranio, che resta diviso in due parti con un convincente effetto splatter. La mannaia si abbatte sulla donna per altre sei volte sino a maciullare il corpo senza pietà. Il suo amico resta prigioniero di una cella e subito dopo sette lame cadono dall’alto e si conficcano sul corpo. Eccezionale l’effetto splatter della lama che penetra nel bulbo oculare tra le grida di terrore di Barbara Cupisti. Ha inizio la vendetta dei sette monaci neri eretici che sono stati accusati di aver fornicato con il demonio e adesso risorgono per vendicarsi. I difetti più evidenti del film sono i dialoghi pessimi, la recitazione impostata e certe situazioni di sceneggiatura risolte in modo scolastico. Il ritmo della pellicola è piuttosto fiacco e spesso sembra che il regista voglia allungare il brodo infarcendo la storia di dialoghi retorici abbastanza inutili. Gli effetti speciali e la suspense sono le cose migliori e anche la storia è molto originale e avvincente. Nella trama si sente tutta la passione storica del regista. Maurizio è prigioniero di un gigantesco masso ed è così che i sette monaci si trasformano in ragni giganti e lo uccidono al temine di una sequenza memorabile. In questa parte mi è venuto a mente lo stile di Lucio Fulci che ha realizzato sequenze simili nell’ottimo Paura nella città dei morti viventi (1981). Un altro degli speleologi finisce ucciso in una cassa da morto con sette fioretti infilati nel corpo a forma di croce. I sette monaci neri si trasformano in ragni schifosi ma possono assumere anche altre sembianze, però non sappiamo quali. L’effetto speciale dei ragni è tra i migliori della pellicola, ma citerei anche la croce di fuoco che appare e scompare e una lunga scena tra le grotte in mezzo al fuoco. I monaci hanno attraversato le porte dell’inferno e adesso cercano vendetta. Quando arrivano i sospirati aiuti per i tre superstiti c’è il colpo di scena finale, perché si tratta dei monaci che hanno assunto sembianze umane. Bello il colpo di teatro e ottime pure le scene dell’eccidio che i terribili monaci dal volto annerito compiono per mezzo di pugnali. Il doppio finale è dovuto, come in ogni buon horror italiano, e infatti vediamo Barbara Cupisti che si risveglia da un incubo. Non è accaduto niente ed era solo un sogno della protagonista, ma quando la donna va al campo si accorge che la storia si sta verificando. Maurizio ha bisogno di aiuto e grida le stesse parole del sogno, proprio mentre Barbara Cupisti vede una ferita sul volto di Rossi Stuart e infine arrivano anche i ragni. Il terrore si dipinge sul volto della ragazza per una sorprendente sequenza sulla quale scorrono i titoli di coda. Lenzi inventa un doppio finale simile a quello già usato per Incubo nella città contaminata, ma in ogni caso si tratta di un efficace colpo di scena.

L’ultima incursione nell’horror di Umberto Lenzi è con Dèmoni 3 (1991), un film mai uscito nelle sale che non ha niente a che vedere con la serie Dèmoni di Lamberto Bava. Dèmoni (1985) e Dèmoni 2… l’incubo ritorna (1986) sono due horror all’americana scritti da Bava, Argento, Sacchetti e Ferrini, realizzati anche con buoni mezzi economici. Nel primo film assistiamo a un trionfo di splatter in una sala cinematografica, mentre nel secondo i dèmoni escono fuori da un apparecchio televisivo. Teo Mora ha definito Dèmoni come “uno dei più bei film fantastici dell’ultimo decennio”. Non sono così entusiasta, pure se i trucchi di scena e le parti splatter risultano interessanti, così come sono di effetto i mostri che escono dalle pance dei protagonisti. Dèmoni 3 è un falso sequel perché è ambientato in Brasile e racconta un’interessante storia di macumba e di candomblé. Produce la Filmaker di Giuseppe Gargiulo che realizza una pellicola basata su un buon soggetto di Umberto Lenzi, sceneggiato in modo zoppicante da Olga Pehar, che è pure responsabile dei dialoghi non sempre all’altezza. Scenografie e costumi sono di Giuliana Bertuzzi, il trucco è di Franco Castagni, dirige la fotografia Maurizio Dell’Orco. Il montaggio è di Vanni Amici, mentre le musiche (suggestive e di atmosfera brasiliana) sono di Franco Micalizzi. Interpreti: Joe Balogh, Keith Van Hoven, Sonia Curtis, Philip Murray, Juliana Texeira e Maria Alves. La cosa più bella del film è una riuscita ambientazione brasiliana, tra Rio De Janeiro e le campagne nei pressi di Belo Horizonte, ma soprattutto una perfetta ricostruzione dei riti sincretici praticati dalla parte nera di quella popolazione. Sono davvero ben riprodotti i balli del candomblé, le musiche che evocano gli spiriti dei morti, le macumbe, i rituali simili al vudù haitiano con pupazzi e spilloni, l’uccisione dei galli e le conchiglie per divinare il futuro… Ho una certa conoscenza di queste pratiche di magia nera che ho affrontato nel mio Cuba magica (Mursia, 2003) e ho ritrovato in questa pellicola molti rituali praticati nella santería e nel palo mayombe cubano. Lenzi si documenta a dovere sulle credenze afrolatine, cita senza errori i nomi delle divinità (Ochún, Yemayá, Orula, Changó, Obatalá…), descrive i balli dedicati ai santi (orishas) con dovizia di particolari e mostra credibili evocazioni. Se siete interessati alla cultura religiosa di queste popolazioni Dèmoni 3 merita di essere riscoperto. Lenzi scrive un bel soggetto ispirato a un’antica leggenda brasiliana che narra di sei schiavi neri barbaramente impiccati dai padroni di una fazenda, dopo averli accecati. Peccato che la sceneggiatura, i dialoghi e la recitazione indeboliscano molto il gran lavoro di ricerca e di elaborazione della trama compiuto dal regista. Il film è incentrato su Dick, Kevin e Jessica che si trovano in Brasile per realizzare un servizio sul samba, ma Dick (che soffre di problemi psichici) è affascinato dai riti del candomblé e finisce per essere posseduto da un dèmone. Il rito al quale partecipa è ben ricostruito, tra balli sensuali e tamburi batá, uomini dagli occhi spenti e favelas fantasma che si risvegliano al clamore dell’evocazione. Dick è l’elemento esterno di cui i dèmoni si servono per tornare in vita e sarà proprio lui a praticare l’evocazione nel cimitero della fazenda. La location brasiliana è ottima, tra palme e foresta tropicale, ma pure la ricostruzione della fazenda non lascia adito a critiche. Nella grande casa cadente si svolge la parte misteriosa e fantastica del film che vede entrare in scena anche due giovani brasiliani (José e Sonia) e una serva di colore (Maria). Sono ben realizzate le parti in cui la negra cerca di fare una contromacumba, perché si è resa conto che Dick è posseduto e ha appeso al collo un ciondolo che raffigura un simbolo magico. José caccia via la serva perché la crede responsabile di ciò che sta accadendo e soprattutto della morte di Sonia, che viene barbaramente uccisa dagli schiavi scatenati da Dick. La scena al cimitero mostra Dick che accende il registratore contenente la cassetta con il rito, subito dopo le tombe prendono fuoco e i sei schiavi sepolti escono dalle bare. Si tratta di una parte molto ben realizzata e soprattutto sono credibili i sei dèmoni con gli occhi bianchi come se fossero ciechi e il corpo coperto di pustole. Non sono zombi nel senso letterale del termine, perché non vagano senza una meta in cerca di carne umana, ma si appostano e attendono il momento propizio per colpire. Hanno una missione da compiere: uccidere sei uomini bianchi e vendicare il loro antico eccidio. I dèmoni che escono dalle tombe conservano le catene ai piedi come simbolo della loro schiavitù e uccidono per mezzo di un machete. La fazenda diventa il luogo dove colpiscono, mentre scompare la corrente elettrica e Jessica viene aggredita ma nessuno le crede. La fotografia notturna del film è scura e spesso rende faticosa la visione, pure se gli effetti speciali sono buoni. Un altro difetto della pellicola è la eccessiva lentezza e la macchinosità di certe parti di raccordo, come i lunghi dialoghi mal recitati dai pessimi protagonisti. I dèmoni che tornano dal passato uccidono prima Sonia e subito dopo Maria che tentava di fermarli con una contromacumba. L’uccisione della negra è un trionfo di gore che vede i suoi occhi estirpati a colpi di machete, come i padroni bianchi avevano fatto agli schiavi prima di impiccarli. Quando Dick uccide José con un colpo di coltello, i suoi amici comprendono che è proprio di lui che devono liberarsi. Kevin ha l’idea di fabbricare bottiglie molotov per uccidere gli zombi con il fuoco e la mossa pare vincente, anche se Dick è adesso completamente invasato e parla per bocca degli orishas. Da segnalare nel convulso finale le numerose scene riprese da Shining di Stanley Kubrick (1980). Lenzi omaggia il grande registra statunitense mostrando Dick che insegue Jessica, sfonda la porta a colpi di scure e alla fine inserisce il braccio dalla fessura praticata. Kevin si libera degli zombi con le bottiglie incendiare, ma l’ultimo dèmone uccide con un colpo di machete Dick e libera la fazenda dal terrore. Kevin e Jessica abbandonano il luogo dell’eccidio per tornare a casa dove coroneranno il loro amore. Un ulteriore difetto da segnalare è che nel film il rapporto tra i due protagonisti è descritto in modo superficiale e senza il minimo spessore. C’è il tempo per il solito doppio finale, vero marchio di fabbrica di ogni horror italiano. Lo spettatore resta nel dubbio che tutto sia davvero finito, perché lungo la via del ritorno vediamo un gruppo di brasiliani dare il via a una sinistra macumba. È un vero peccato che un bel soggetto come questo sia stato realizzato in maniera così scadente, soprattutto per colpa di una sceneggiatura non all’altezza e di una recitazione approssimativa.

Mereghetti stronca Demoni 3: “Sequel solo nominale dei film di Bava jr.: mal scritto, statico e tirato al risparmio, con lo splatter al minimo sindacale e zero suspense. Tra gli ultimi titoli alimentari del regista, forse il più indifendibile”. Alex Visani sul suo sito internet commenta: “Lenzi sforna un film che alterna momenti splatter molto truculenti a momenti di pausa alquanto statici e noiosi. La storia è striminzita e la recitazione davvero piatta e poco credibile. Ci si diverte abbastanza a vedere gli zomboni neri massacrare con ganci, catene e machetes ma per il resto si sonnecchia e si sbadiglia sensibilmente”. Secondo me Demoni 3 è ancora oggi un lavoro interessante per una perfetta ambientazione brasiliana e per una ben documentata analisi del folklore locale.

Umberto Lenzi mi ha fornito il suo parere sulla pellicola che riporto integralmente. “Io non amo gli effetti splatter, di quella storia mi interessava la magia nera, ossia il potere misterioso di un rito capace di evocare i morti. E anche il tema degli schiavi che si vendicano delle angherie dei padroni bianchi. Ma non c’era un budget adeguato. L’unica  scena che mi soddisfece pienamente fu quella della macumba, girata dal vero. Comunque sul film aleggiò una  sorta di maledizione: l’attrice che avevo scritturato a Los Angeles si  ruppe un braccio tre giorni prima dell’inizio del film, e fui costretto a sostituirla con una che non valeva nulla. Costei durante le riprese si avvelenò, bevendo del latte non pastorizzato alla finca dove giravamo e finì all’ospedale. Il protagonista  (che in Italia con Bava aveva ben lavorato) qui cadde in una sorta di catalessi e il giovane attore americano Joe Balogh (con cui avevo fatto Hitcher in the dark, due anni prima ed era bravissimo) recitava  in modo svogliato e abulico. Anche quando si impegnava. Inoltre, il set della finca fu travolto da un’inondazione e tre comparse brasiliane scritturate per fare gli schiavi zombi, scomparvero (probabilmente si erano scocciati e avevano fatto ritorno a Rio). Giravamo in un posto sperduto e lontanissimo. Temo che tutto questo sia dovuto proprio alla macumba, poiché l’altro film girato in contemporanea riuscì benissimo e filò liscio. Era un film d’azione, Caccia allo scorpione d’oro, con dei protagonisti discreti (Andy J. Forest, una attrice americana e David Brandon). A mio parere Hitcher in the dark (Paura nel buio), girato a Virginia Beach e a Norfolk nel 1988, è un thriller-quasi horror molto più riuscito”.

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