La fiera delle illusioni di Guillermo Del Toro

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Recensione di Gianni Solazzo

È lady Macbeth la madre di tutte le Femme Fatale del cinema noir. Il primo grande noir, genere letterario o cinematografico che racconta di un delitto, dal punto di vista del criminale e di una donna Femme Fatale che seduce un uomo per indurlo ad uccidere per denaro e potere, è Macbeth di Shakespeare. Negli anni ’40 divenne uno dei generi preferiti di Hollywood e del poliziesco americano, con registi come B. Wilder, R. Siodmak, F. Lang e scrittori come C. Woolrich, J. Cain, E. Chaze, D. Goodis, con storie girate in abbagliante bianco e nero che Joel Coen con sapienza usa nel suo recente rifacimento della tragedia shakespiriana. Così mentre discutono di togliere i nani da Biancaneve che dovrà svegliarsi perché caduta dal letto e poi aprire, volitiva, una scuola di yoga o una startup di data analytics, ecco un film che dei cinecomic politicamente corretti e dell’ottusità della star hollywoodiane se ne frega e prova la strada del film filosofico che racconta il male. Martin Scorsese sollecita a vedere La fiera delle illusioni e io lo ascolterei, di corsa. La fiera delle illusioni è un film lungo e intenso diretto da Guillermo Del Toro, Oscar con La forma dell’acqua. Ha un difetto ineliminabile fin dal romanzo da cui è tratto: il protagonista Stan Carlisle (Bradley Cooper) è antipatico e non potrebbe essere diversamente, visto che è un opportunista imbroglione, un criminale e un assassino, difficile identificarsi con lui. Con un passato pieno di ferite e tormentato alle spalle, Stan giunge in una fiera girovaga di attrazioni: donne elettriche, fenomeni, casa degli orrori, streghe, letture del pensiero e della mano. Imparerà a manipolare le persone e a imbrogliarne di facoltose, fingendo abilità medianiche, ma pur credendo di conoscere a fondo gli altri, impara a sue spese in una vertigine di morte, sangue e inganni che non si sa mai cosa cela il volto degli uomini. Lo dice Shakespeare in Macbeth: “Nessuna arte insegna a scoprire nel volto la costruzione della mente.” Stan Carlisle Shakespeare non l’ha mai letto. Perfettamente chiuso drammaturgicamente, come il libro da cui è tratto, La fiera delle illusioni è un film cupo, si svolge di notte mentre piove o nevica o quando il cielo è livido all’alba, non c’è sole. Il film è tre testi in uno: il libro di William Lindsay Gresham da cui è tratto, il film del 1947 di Edmund Goulding con Tyrone Power, il film di oggi. Il libro di Gresham è degli anni ‘40 e ricorda da subito sia Furore di Steinbeck che Freaks di Tod Browning, per l’umanità dolente e marginale che mette in scena.

Nella seconda parte ricorda il noir di James Cain per l’uomo preso in trappola da una Femme Fatale che lo porta alla rovina e lo distrugge; quello da incubo di Cornell Woolrich per il senso del destino avverso e ineluttabile. Ogni capitolo è introdotto da una carta dei tarocchi, come se ogni volta suonasse una campana a morto. La struttura del libro è disarmonica, mescola diversi stili, dalla narrazione in terza persona, al monologo interiore, l’azione al presente, il flash back, ma emergono nette alcune idee filosofiche: il male non è contingente ma eterno e affonda le radici nella vita stessa, l’uomo può essere ridotto a bestia, se dimentica che i suoi simili sono fini e non mezzi. Credere di conoscere gli uomini solo perché si conosce se stessi, è una tragica presunzione. Il film del 1947 ha tutte le caratteristiche perbeniste ed edulcoranti del cinema del codice Hays; è piuttosto per bene, nonostante la torbida materia che affronta, luccicante di bianco e nero, ricorda come è inevitabile i grandi noir di quegli anni, Laura, Double Indemnity, Le catene della colpa. Fu il primo film da cattivo di Tyrone Power, carattere che approfondirà impareggiabilmente in Testimone d’accusa di Wilder.

La Femme Fatale del film di Goulding era interpretata da Helen Walker, scelta dopo il rifiuto di Marlene Dietrich, e si chiama Lilith, la mitica figura femminile che non volle assoggettarsi ad Adamo perché pretendeva gli stessi diritti, in questo caso il diritto di uccidere e manipolare l’altro. Il film di oggi attinge ad entrambe le fonti, coniugandole però con l’estetica freak che da sempre caratterizza Guillermo del Toro. Cate Blanchett è una sinuosa, pericolosissima Lilith, memore di Veronica Lake e Marlene. La complessa struttura del romanzo, molto letteraria, molto oscura e si prestava a due film: la prima parte sulla grande depressione degli anni ‘30; la seconda un ineluttabile noir dal destino segnato. Del Toro ha voluto tenerle insieme, adattandole all’immaginario odierno. Forse ha preteso troppo, ma ha realizzato un film bello, molto bello. E terribile.

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