Sangue Tropicale 1° parte di Gordiano Lupi

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1. Prima vittima

Solo adesso mi rendo conto che quell’uomo sul mare ero io.
Non ho assistito alla proiezione di un film.
È parte della mia vita e rammento tutto con terrore.
Soffro di un dolore lancinante allo stomaco che non mi fa respirare. Conati di vomito accompagnano strani rimorsi.
Mi affaccio alla finestra della mia casa e guardo le stelle della solita notte tropicale. Palme altissime si sporgono sin dentro al giardino. Doralys dorme, ignara di tutto. Il mare in lontananza è solo un ricordo e rumoreggia accompagnando i miei pensieri.
Poco fa ero vicino a Bacuranao e vedevo le onde accavallarsi seguendo la strada tracciata dal vento. Uomini e donne mi passavano accanto e io attendevo l’occasione propizia per colpire. Rammento tutto ma non comprendo i motivi.
A un tratto l’ho vista. Era giovane, con i capelli castani e gli occhi da bambina. Un corpo non ancora sviluppato che conservava tutta la freschezza dell’adolescenza. Muoveva le sue curve provocanti e mi spingeva a soddisfare i miei istinti.
Credo che tornasse da una festa sulla spiaggia. Ne fanno tante da queste parti. Sono feste semplici. Basta un giradischi che funzioni ancora e qualche bottiglia di rum.
L’ho seguita a distanza, in modo da non farmi scoprire e ho atteso il momento. Là dove la strada si fa più buia, dopo le vecchie case coloniali vicino alla spiaggia, ho colpito. C’era solo la luna a testimoniare. C’erano solo le stelle. Tutto attorno silenzio e vento di mare. Domani troveranno il corpo squartato da un coltello proprio sulla riva, accarezzato dall’acqua salata. Lo troveranno violato da un ultimo abbraccio d’amore. Avrà avuto tredici anni e un bel sorriso su quel volto da creola.

Non potevo lasciarmela scappare. Proprio non potevo.
Sono fuggito via subito dopo, lasciando sulla spiaggia l’odore acre del salmastro e portando con me il sapore di sangue e sperma, frammisto agli umori di quella ragazzina.
E le sue grida adesso rimbalzano nelle mie orecchie come coltelli e mi fanno soffrire. Ho in testa una tempesta di sensazioni che non riesco a descrivere.
Doralys dorme e non sospetta di niente. È così dolce con me e mi vuole bene. Stiamo insieme da quasi un anno. È l’unica donna che sia riuscita ad accettarmi per quello che sono, senza pretendere niente di più di ciò che riesco a dare.
Non come in Italia. Ho fatto bene a scappare.
Con lei posso dire di essere davvero felice.
Proprio per questo non riesco a capire perché l’ho fatto.
Cosa mi ha spinto sul mare in questa calda notte d’un incredibile inverno tropicale? E cosa mi ha portato a uccidere, devastando il corpo innocente d’una ragazzina?
Provo a pensare al passato. Le mani distese lungo i fianchi, sdraiato sul divano, proprio davanti al vecchio televisore a colori portato dall’Italia. Se Doralys si alza posso sempre dire che sono rimasto in piedi sino a tardi a guardare i programmi, oppure che ho bevuto qualche bicchierino di rum di troppo.
Sono ormai tre anni che vivo a Cuba, a Guanabacoa, un quartiere dell’Est Avana circondato dal mare. Non che sia un gran posto, pieno com’è di negri e povera gente, raccolti nelle loro superstizioni e affascinati dai riti della santéria. Va bene per chi come me si fa la sua vita e la fa fare agli altri.
Non ho mai creduto in niente. Neppure nella religione cattolica, anche se vengo dalla terra del papa. Il comunismo non mi ha mai convinto, anche se sono venuto a finire tra le braccia dell’ultimo dei comunisti. Figuriamoci se credo ai riti che praticano da queste parti. Sono andato spesso ad assistere, solo per curiosità. Evocano morti e fanno riti strani, sgozzano capretti e sacrificano sangue. Invocano divinità dai nomi africani come Oyá, Changó, Oggun, Obatalá… Io ascolto e sorrido, mi diverto, ma non credo. Non ho mai creduto. Qui invece sono tutti santéri, o paleri, che è qualcosa di più, come dice sempre la mia compagna.

Il palero è un capo, può fare dei riti particolari, come far entrare lo spirito di un morto nel corpo di un vivo.
Sono tutte balle, ma bisogna convivere con queste credenze e io lo sto facendo. I cubani mascherano queste divinità con nomi cattolici. Io rammento solo San Lazzaro. Il mio vicino di casa, che è un famoso santéro, ha una statua di San Lazzaro che sarà più di tre metri e la tiene in giardino…
In ogni caso sto bene a Cuba e non mi manca niente.
Tre anni fa sembrava un salto nel buio. Scappavo dal passato e non sapevo perché. La vita mi aveva deluso. Ero rimasto solo.
I genitori morti da tempo, un fratello che viveva lontano e che vedevo un paio di volte all’anno. Una moglie che mi aveva lasciato per correre dietro ai sogni di carriera.
La mia casa sul mare bruciava di troppi rimpianti. I ricordi si specchiavano ogni mattina nella tazzina di caffè e tornavano a galla con i passi del quotidiano. Il lavoro era diventato una tortura e non c’era niente che mi facesse sentire l’importanza di continuare a vivere. Percorrevo chilometri di strade per contattare clienti di sempre. E la mia casa era maledettamente vuota. Sarebbe finita male se non avessi avuto la forza di mollare tutto e scappare. Cominciare una nuova vita. Ripartire da zero.
Tanti lo facevano, perché io non potevo?
Fu così che mi lasciai convincere dal mio amico Paolo. Lui da tempo lavorava con Cuba e faceva la spola con i Caraibi più volte all’anno. Mollai tutto. Un poco di denaro da parte non mi mancava. Affittai la casa, vendetti qualche proprietà e mi lasciai alle spalle i frantumi del passato.
Il mare, il mio solito mare che aveva accompagnato passi e silenzi di tante stagioni, mi salutava all’imbrunire. Il vento mi scompigliava i capelli. Forse qualche lacrima, nascosta tra le rughe della pelle, mi segnava il volto.
Era certo che la mia terra mi sarebbe mancata.
Paolo mi faceva coraggio.
“Da domani si cambia vita. Donne e spiagge. Danze e rum. Ti bruceranno dentro come un fuoco vivo. Ti sentirai un altro”.
Paolo lavorava a un progetto imprenditoriale con il governo cubano. Non che fosse facile districarsi nella burocrazia del sistema comunista, tra bolli e scartoffie, divieti e ostacoli, bustarelle e funzionari corrotti. Lui però si era adattato e continuava a costruire alberghi per conto dello stato. Enormi palazzoni affacciati su stupende spiagge. Impianti ultramoderni accanto a povere case diroccate.
“Bastava non pensarci” diceva “In fin dei conti non è colpa nostra”. Mi aveva anche offerto di entrare in società con lui, ma io non ero scappato dall’Italia per continuare a lavorare. Avevo quarantacinque anni e il denaro risparmiato mi bastava per vivere. Mi ero licenziato e avevo ottenuto una bella liquidazione. Avevo riscattato la polizza vita. Le proprietà vendute e la casa in affitto mi assicuravano una rendita che dava tranquillità. Avrei vissuto così, in modo naturale. Dovevo girare pagina e non farmi più prendere dall’ingranaggio degli impegni quotidiani.
E poi Paolo avrebbe fatto ritorno. Aveva una famiglia, una casa, un posto dove qualcuno lo attendeva.
Io no. Io fuggivo dai ricordi. E volevo una vita nuova.
Fino a ora credevo di averla trovata.
Ma adesso perché sto così male? Cos’è questo dolore intenso che sento alla bocca allo stomaco? Un conato di vomito accompagna i miei pensieri. Qualcosa dentro brucia e mi divora, mentre la luna in cielo pare fissarmi con uno sguardo di rimprovero. Doralys in camera mi attende. Non mi resta che andare da lei per provare a dimenticare questa notte terribile.
Una domanda percuote la mia mente e non trova risposta.
Terrore e dolore si alternano, in un gioco di emozioni senza tempo. Ho ucciso una ragazza sulla spiaggia di Bacuranao.
L’ho violentata. Ho strappato quel vestito colorato, attillato, dal quale uscivano fuori le curve evidenti d’un giovane corpo e le ho ghermito le carni, affamato del suo sapore intenso. L’ho gettata sulla spiaggia bagnata di quel lungomare. Le tenevo la bocca serrata con una mano. Premevo con forza e il coltello puntato nel cuore ha fatto il resto.
Non so se il piacere maggiore l’ho avuto scopandola o dopo, quando l’ho massacrata con colpi decisi. Le ho aperto il cuore.
Le viscere sono uscite abbondanti, mischiando l’intenso profumo di morte alla sabbia bagnata. E io me ne stavo a osservare il lavoro compiuto. Sorridevo. Adesso ricordo tutto, però è come se fossi stato spettatore di qualcosa che non mi appartiene.
Particolari precisi di scene che vorrei dimenticare si affacciano prepotenti alla mia mente sconvolta. E non so capire. Non riesco a spiegarmi niente. Il corpo d’una ragazzina lacerato e distrutto, disteso sulla spiaggia di Bacuranao, preda di cani affamati e giganteschi avvoltoi che affollano i cieli avaneri.
Solo questo rammento.
È una foto indelebile di dolore e raccapriccio.
È una sequenza d’una pellicola che vorrei dimenticare.
La cosa peggiore è che adesso non comprendo più niente.
Soprattutto non riesco a spiegarmi perché l’ho fatto.

2. Ricordando il passato

I miei tre anni a Cuba sono stati più intensi che il resto della mia vita. I primi tempi abitavo con Paolo in una casa vicino alla Villa Panamericana, un villaggio per turisti verso le spiagge dell’Est Avana. Ci eravamo tuffati nella vita notturna della capitale e ne gustavamo a fondo tutte le suggestioni. Non c’era locale dove non ci conoscevano e siccome avevamo in tasca dollari ci rispettavano. O almeno così credevamo. In realtà adesso ho capito che il rispetto dei cubani era disprezzo camuffato. E devo dire che ce lo meritavamo perché ci comportavamo da veri bastardi. Non ricordo le donne che ho cambiato durante i primi mesi di permanenza sull’isola. Tutte ragazzine a caccia di denaro per la famiglia, magari anche di un vestito e un paio di scarpe, oppure un piatto di carne per la cena. Tutte cose che il ricco straniero poteva offrire. E io mi approfittavo di questo. Frequentavo splendide mulatte e deliziose creole di vent’anni e mi sembrava di avere il mondo tra le mani. Insieme a Paolo percorrevamo le notti avanere, danzavamo salsa e merengue nella cornice anni cinquanta dell’Havana Cafè. Oppure ballavamo la sfrenata discoteca del Turquino al quindicesimo piano dell’Hotel Habana Libre. Passeggiavamo mano nella mano con donne sorridenti che potevano essere nostre figlie, sul lungomare della capitale illuminato dal riflesso della luna più che da lampioni cadenti. Facevamo la vita del peggior turista italiano in vacanza a Cuba. Paolo era anche sposato e tradiva la moglie con leggera noncuranza.
“Sono botte d’allegria” diceva “questi non li puoi chiamare tradimenti”.
Io non dovevo rendere conto a nessuno. Ero libero. Però avevo un patrimonio di vecchi valori trasmessi da mio padre che le delusioni di un matrimonio sbagliato non avevano cancellato. Una voce interiore mi diceva che quella non era la vita che cercavo. Passata la prima sbornia di sesso e notti brave decisi di cambiare. Vedevo i volti allegri delle mie compagne e scorgevo, dietro la facciata di un sorriso costruito, tanta disperazione. Non volevo continuare ad approfittarmi di loro.
Fu così che poco a poco tagliai i ponti con Paolo e cominciai a vivere da cubano. Comprai casa a Guanabacoa, in un quartiere vicino al mare, ma lontano dalle mete preferite dai miei connazionali che cercavano soltanto ragazzine da scopare.
Alcune zone dell’Avana mi facevano ribrezzo.
La Cattedrale, il Melia Cohiba, lo stesso Malecón.
Luoghi d’incontro di bambine cresciute troppo in fretta e vecchi cacciatori di sesso. Luoghi che ricordavano un antico splendore e che adesso facevano parte d’uno squallido presente.
Sentivo che cominciavo ad amarla quella gente così semplice e genuina, che si contentava di poco e riusciva a trovare un motivo per essere felice anche tra mille difficoltà.
La famiglia avanera che mi aveva affittato l’appartamento fu importante per l’acquisto della casa. Le mie pratiche per la residenza non erano esaurite e come cittadino straniero non potevo comprare niente. Misteri del comunismo che ancora non comprendevo a fondo. In cambio di un po’ di dollari il buon Fernandez si interpose nell’affare e in poche settimane avevo il mio patrimonio immobiliare a portata di mano.

Era una casa coloniale con giardino. Niente male, paragonata al livello medio delle costruzioni locali. Aveva due camere da letto, una sala, la cucina e il bagno. Nel patio c’erano pure un albero di mango, un avocado e una palma altissima. Avevo anche un frambojant dai fiori rossi e dal profumo intenso, soprattutto nei mesi più caldi.
Cominciai a vivere a Guanabacoa e mi feci molti amici. Alcuni interessati, perché ero italiano e possedevo dollari. Altri sinceri. La gente di queste parti è molto intelligente e comprende subito se di una persona ci si può fidare. Hanno un fiuto eccezionale. Sono scaltri e intuitivi. Altrimenti non potrebbero sopravvivere. Qui tutto va conquistato, anche il piatto di riso con fagioli del giorno. Nessuno ti regala niente. Neppure l’amicizia, se non te la meriti. Ho cominciato a sentirlo vicino questo popolo che sa sorridere e trova sempre il modo di arrangiarsi. E ho cambiato vita. Negli anni successivi ho avuto altre donne ma sono state storie vere, più o meno importanti. Non ero più il turista affamato di sesso a caccia di negrette o di mulatte dalle forme abbondanti.
C’è stata Helene nella mia vita ed è stata una storia vera.
Abbiamo vissuto insieme per sei mesi, poi ci siamo separati.
Non era la ragazza che faceva per me. Credo mi volesse bene, ma con lei non potevo fare una vita tranquilla. Aveva diciotto anni e le nostre esigenze erano troppo diverse.
A me la sera piaceva stare a bere un bicchiere di rum e parlare con gli amici, in quello spagnolo strascicato e veloce che avevo cominciato ad apprendere. Lei invece avrebbe voluto passare da una festa all’altra, ballando salsa e merengue.
No, non faceva per me. Certo a Helene la cosa non è andata giù bene, anche perché lei e la sua famiglia avevano risolto i problemi economici. Ogni tanto la incontro al Parque Central durante le feste o per le vie di Guanabacoa.
Non abita lontano da me. Ma tutto è finito da tempo.
Adesso c’è Doralys e con lei credo di aver trovato davvero l’amore della mia vita.

3. Seconda vittima

Accade di nuovo, quando meno me lo aspetto. Senza avvisare. Sono comodamente seduto in giardino e mi godo il fresco di questo mite inverno cubano. Nella mano tengo l’inseparabile bicchiere di rum. Aspiro rapide boccate da un sigaro Cohiba e mi lascio cullare sulla sedia a dondolo del giardino. Doralys è in cucina a sistemare i piatti sporchi della cena. Non vuole mai che l’aiuti. Dice che è cosa da donne e che non debbo mettere il naso nelle sue faccende. Io l’assecondo ed esco fuori, al fresco del frambojant, sotto la palma altissima, vicino al mango che ancora deve dare i suoi frutti. Ascolto il rumore della notte e il nastro che corre sulla bobina. Languide canzoni spagnole che parlano d’amore. Veloci ritmi di salsa e merengue. La musica di questa terra. La musica della mia nuova terra.
Nel silenzio accade di nuovo. Il sigaro mi scivola di mano. Il rum brucia nello stomaco. Forte, come non l’ho mai sentito. Dolore e sudore. Conati di vomito improvviso. Sento che qualcosa si sta muovendo dentro. Parte dalle viscere e cattura i miei centri nervosi, modificando pensieri ed emozioni. Sono ancora me stesso, ma rimango aggrappato a un pensiero lontano.
Una spiaggia. Il mare. Bacuranao. Il sangue secco e rappreso di una puttanella sulla rena bianca. Devo fuggire da questo fottuto giardino e da questa sedia di legno che dondola nel silenzio. Devo scappare, perché qui non ho niente da fare.
Doralys non deve vedermi.
Questo riesco a capirlo.
Il dolore lancinante, che è partito dallo stomaco e che mi brucia le viscere, si modifica in euforia. Incomprensibile.
Esco rapido dal mio giardino. Passi veloci nella notte. Sono di nuovo alla ricerca di un tragico approdo.
Voglio una donna. Giovane, inesperta, dolcissima.
Doralys è solo un ricordo lontano. Un soffio di vento, che si affievolisce su note di vecchie canzoni.
Cerco una ragazzina, come quelle d’un tempo.
Raggiungo il parco di Guanabacoa.
C’è una festa, come se ne fanno ogni sera qui intorno.
Rum e salsa. Ragazze e ragazzi che ballano. Donne di colore. Bambine giovanissime che attendono il ragazzo dei loro sogni.
Per questa notte dovranno aspettare, mi dico.
E sorrido.
Stanotte soltanto una di loro ha diritto a un sogno.
E non sarà piacevole, questo è certo.
Un incubo strano e perverso, regalato dal mio coltello affilato.
Nella confusione di musica e sorrisi vedo un ragazzo di colore che si avvicina. Temo che abbia compreso qualcosa.
In una delle tasche laterali dei pantaloni tengo riposto il coltello e la mano corre rapida ad accarezzarlo.
Fai attenzione negro, perché puoi farti del male. Molto male.
“Vuoi da bere amico? ”, mi chiede.
Faccio cenno di sì con il capo. Non sto bene ed è meglio se non parlo. Non so quali suoni potrei articolare. Non sono in grado di capire neppure il senso delle mie parole.
Mi versano del rum in un bicchiere di plastica.
Lo bevo in un sorso. Il liquido ambrato mi brucia le budella.
Più del solito. E non è la mia vecchia gastrite.
Poi la vedo. Bella. Mulatta e sensuale. Balla una salsa romantica con un compagno improvvisato. Lui la tiene stretta e la fa roteare con mani esperte. La ragazza accompagna con il corpo le sue istruzioni. Suda, gocciola stille di stanchezza da un volto arrossato. Vedo i suoi occhi neri illuminare le strade della notte. Le sue curve tracciare un cammino.
È la donna che cerco. Devo soltanto attendere.
Lo stomaco mi fa male. Convulsioni e dolori inconsueti mi tengono compagnia. E non è il rum a bruciare nel corpo.
Non sono capace di pensare più a niente. Non a Doralys, non alla casa, non al mio passato. Adesso esiste solo quella splendida mulatta dalle forme sinuose.
La danza termina. È tardi. Si sbaracca la festa. Giradischi, tavoli, rum. Ogni cosa ritorna al suo posto. I ragazzi si salutano e portano via le loro cose. A me interessa solo sapere che il ballerino non è il suo compagno, ma un semplice amico.
La mulatta va via da sola, lungo la strada che dal parco conduce al centro del paese. Case coloniali e palme. Campagna tutto attorno. Illuminazione carente, tanto che solo la luce della luna riesce a scoprire gli angoli bui.
E io la seguo. Nessuno mi vede. Rapidamente, ma con passi felpati, sono dietro di lei. Riesco a parlare in modo quasi normale, mascherando eccitazione e furore che mi covano dentro.
Non è ancora il momento. Devo tenermi a freno.
“Fermati” le dico “ti ho vista ballare. Sei molto brava. Restiamo un poco a parlare”.
Lei mi riconosce per straniero e sorride. Sa che deve sorridere a tutti coloro che non parlano bene la sua lingua. Può servire.
Questa volta no, cara la mia puttana.
La sua ingenua fiducia è quel che basta per coglierla di sorpresa.
Il mio coltello è ancora affilato e lucido.
L’odore del sangue si ferma sulla lama.
Non voglio neppure scoparla. Mi basta il suo dolore.
Voglio fotografare un sorriso in un’istantanea eterna.
Mi guarda mentre cade a terra. Non sa perché. Non comprende.
Neppure io lo so, cara la mia puttana che dimeni il sedere sotto la luna a passo di salsa. Comprendo solo che dovevo farlo e adesso mi sento soddisfatto. E la colpa dopo tutto è tua perché mi hai provocato. Si vedeva tutto da quel vestitino corto che mi volteggiavi davanti.
Tolgo il coltello e il sangue esce fuori abbondante.
Nessuno mi ha visto. Adesso so che debbo fuggire.
Via per le strade della notte. Via attraverso una città spenta e addormentata. Rapidi passi mi portano a casa, mentre per un attimo la mia mente sconvolta riprende il sopravvento sulla follia di pochi istanti prima. Doralys cosa penserà? Cosa posso dire?
Sono sudato e distrutto. Debbo fermarmi e riposare.
Non posso farmi vedere così.
Mi ricompongo. Entro in un bar. Chiedo un bicchiere di rum e lo bevo in un sorso. Adesso sono più tranquillo. Doralys non sospetterà niente. Dirò che un amico è venuto a cercarmi per offrirmi da bere e che lei era indaffarata e non ho voluto disturbarla. Mi crederà. Mi crede sempre. Non ha motivo di non farlo. Esco dal bar e torno ad andare verso la casa. Il parco è lontano. L’odore della notte e del sangue di quella ragazzina mi accompagna. Assaporo con soddisfazione il mio secondo delitto.
Non è un problema il motivo, adesso. Non debbo chiedermi niente. So solo che ho ucciso e che dovevo farlo.
Domani mi farò le domande. Domani verranno i rimorsi.
Adesso no. C’è posto soltanto per un orgasmo infinito.

4. Risveglio

Doralys ha venticinque anni. Sono pochi in confronto ai miei, però stiamo ugualmente bene assieme. Qui si cresce in fretta, non c’è tempo di essere bambini. Le difficoltà ti maturano e la vita devi affrontarla presto. Mi viene da sorridere quando penso che in Italia una ragazza così non l’avrei neppure avvicinata. Mi avrebbero preso per pazzo, o peggio per pedofilo.
La vedo mentre si muove in cucina. Sta preparando il caffè. La solita tazza di Cubita che al mattino mi riporta nel mondo dei vivi. È forte il caffè da queste parti. Va giù sino alle viscere e ti scuote come una pugnalata allo stomaco.
Sei sveglio, amico, pare che ti dica.
Ricordo, d’improvviso ricordo.
Mi sembrano immagini viste sopra uno schermo surreale e invece è la mia vita. Sono stato io a uccidere quella ragazzina, ieri notte, poco lontano dal parco di Guanabacoa. Un colpo deciso di coltello, come un machete nella zafra, le ha reciso la vita.
Vedo Doralys con la tazzina in mano. Premurosa, amorevole come sempre. Il suo dolce sorriso dipinto in volto. È una creola dalla pelle sempre abbronzata, dalle curve armoniose e il viso da bambina. Credo sia stato quello a farmi innamorare.
“Amore, ecco il tuo caffè”, mi dice.
Le prendo una mano e l’accarezzo.
“Adesso no”, rispondo. E poso la tazzina sul comò in legno che sta alla destra del letto.
La bacio. Doralys si avvicina e si stende al mio fianco.
Facciamo l’amore, più volte. Sfogo desideri e rimorsi in ripetuti e sensuali abbracci. Ma non basta. Il pensiero non mi abbandona neppure mentre esco ed entro dal suo corpo che si muove e asseconda i miei gesti d’amore. Neanche mentre accarezzo i suo riccioli neri che scendono in curve deliziose sulle spalle brune. Una voce continua a ripetermi che sono un assassino, rimbalza nella mente aprendo le porte ai pensieri del giorno. Il corpo giovane di Doralys disteso sul letto. Le mie mani che frugano e scoprono nuovi angoli di piacere. La mia lingua che assapora odori e umori. E Doralys che si muove, eccitata.
Dimenticare il terrore è impossibile. Perdere le tracce della notte. Un coltello sporco di sangue e la mia terribile voglia di colpire. L’euforia di uccidere.
Il caffè adesso è raffreddato.
Restiamo stanchi e sudati tra le calde lenzuola. Abbracciati.
“Sei fantastico” mi dice “hai l’energia di un ragazzino”.
In parte è vero. Mi sento un altro da quando sono venuto a vivere in questa terra. Sarà che sono più tranquillo e che non devo inseguire clienti e impegni ogni giorno. Sarà il clima. Ho sempre voglia di fare l’amore e non mi stanco mai. Le fantastiche donne del Caribe hanno gran parte del merito. Se non fosse per quel che mi sta succedendo potrei dire di essere felice.
Doralys si alza e va in bagno a rimettersi in ordine. Poi torna, prende la tazzina con il caffè che non ho bevuto e va in cucina a riscaldarlo. Mi alzo anch’io. Devo bere il mio Cubita e fare una doccia bollente. Sì perché anche se qui ci sono trenta gradi anche d’inverno a me la doccia piace farla calda. Mi sveglia. Mi fa circolare di nuovo il sangue in corpo.
Una canzone di Willy Cirino si diffonde per la casa.
È un ritmo di salsa, soave, delicato.
Mi lascio penetrare dai suoni e dai profumi che vengono dal giardino. Il frambojant sta facendo sbocciare i fiori rossi.
Un getto d’acqua calda investe il mio corpo ancora assonnato.
Quando vado in cucina trovo la tavola apparecchiata. Qui si mangia molto a colazione, quando si può. Le abitudini sono quelle americane. Uova fritte con salsicce, patatine, banane, frutta di tutti i tipi. Una papaya rossa tagliata a fette fa bella mostra di sé, proprio accanto al mango disposto sul piatto.
Poi caffè nero. Fortissimo. Il mio preferito. Ne bevo a tutte le ore del giorno e non ho nessun problema di sonno. Se solo penso che in Italia non potevo bere più di due tazzine mi viene da sorridere. Adesso niente può farmi male.
A parte quei maledetti incubi notturni.
A parte quel coltello arrossato di sangue.
“Ricordati di questa sera. Non prendere impegni con i tuoi amici. Siamo da Raul, subito dopo il tramonto”, fa Doralys.
“Per fare cosa?”, domando sorpreso.
Non lo ricordavo davvero.
Ho troppe cose in testa che mi tormentano.
“Stasera c’è la cerimonia del santo. Devo fare un sacrificio a Elegguá. Non posso mancare al voto”.
La loro strana religione. Mi diverte, però non riesco a star dietro a tutti questi riti. Doralys ci crede e io l’assecondo. Partecipa con fervore a tutte le cerimonie che celebra il nostro vicino santéro. Quello con la statua enorme di San Lazzaro in giardino.
Mi costa poco accompagnarla. Serve a passare il tempo e a fare un’esperienza. Mi piace l’atmosfera da film horror che si respira tra quelle mura. Animali sgozzati, sangue, frasi recitate in una lingua strana, canti propiziatori.
Doralys è devota a Elegguá. Raccomanda a un fantoccio nero dalle sembianze di un bambino ogni azione della sua vita.
Termino la colazione e mi vesto.
Maglietta e pantaloni di cotone, come sempre. Fa caldo da queste parti e non occorrono giacca e cravatta. Anche questo mi piace. Mi sono abituato in fretta. Non potrei più tornare a fare la vita d’un tempo. Saluto Doralys ed esco per la passeggiata quotidiana. Acquisterò il Granma e Juventud Rebelde, per abitudine e per avere qualcosa da leggere. So bene che ci troverò soltanto pagine di propaganda governativa, però non so fare a meno di scorrere le pagine sottili di quei giornali dal sapore antico. È un piacere fisico irrinunciabile, quasi come quello della tazzina di Cubita quando mi sveglio. Poi passerò da Parque Central e farò qualche acquisto per casa. Quello è compito mio, mentre Doralys cucina. Mi piace questa vita senza pensieri. Mi affascina la leggerezza di un tempo che scorre senza pesare. Invecchio senza accorgermene tra questa gente e specchiando i ricordi negli occhi castani d’una piccola creola.
D’un tratto vedo la locandina del Granma e torno alla realtà.
Una pugnalata allo stomaco e un bruciore improvviso.
La ragazza di ieri notte è sul giornale.
La riconosco, perché la foto è molto recente.
Uccisa da un pazzo, dice la scritta in grassetto.
Dopo una festa nella piazza, prosegue il corsivo subito sotto.
Acquisto il giornale e leggo rapidamente. Ogni parte del mio corpo è percossa da un dolore intenso e terribile.
Sudo freddo. Ho voglia di vomitare.
La polizia lo sta cercando e lo troverà presto, afferma nell’intervista il comandante della stazione di Guanabacoa. Chiudo il foglio sottile e lo ripongo nella tasca dei pantaloni. Oggi il suo sapore mi piace meno del solito.
Avevo quasi dimenticato la mia notte di terrore.
La mia ultima notte di follia omicida.
Una tempesta di pensieri accompagna il mio rientro a casa.
Sono io l’uomo che cercano. E al tempo stesso è un essere diabolico che mi odia e si annida nel mio corpo. Ha deciso di distruggermi e spazzare via la tranquillità della mia vita. Chiedevo solo di vedere ogni giorno il sorriso di Doralys, prima che questa assurda follia mi percuotesse l’anima.
Cosa è accaduto? E poi perché proprio a me?
Mi trovo a pensare come a un omicida che deve costruirsi un alibi. Perché sono un omicida, che lo voglia o no. Uno che neppure in galera potrebbe stare tranquillo. Un violentatore di ragazzine, un assassino a sangue freddo che agisce soltanto per piacere personale. Da queste parti un violentatore omicida viene fucilato, se prima non lo cattura la folla. E la gente lo lincia sulla pubblica piazza.
Mi tranquillizza solo pensare che nessuno può risalire a me, se non mi tradisco. Chi può accusare un italiano, la persona più ricca di tutta Guanabacoa, di essere un killer spietato?
Neppure io riesco a capire. E non so come fermare questo istinto diabolico che mi spinge a percorrere strade notturne in cerca di sangue. Il sole riscalda i miei passi bruciando il selciato polveroso e accompagnando nebulosi pensieri.
La guagua, sferragliante carretta a motore che si ostinano a chiamare autobus, mi passa accanto e solleva una nuvola di polvere. Uomini e donne di ogni colore, ammassati all’interno, mi fanno assaporare odori di fatica e sudore.
Non pensare è l’unica maniera per non diventare pazzo. Non pensare e occultare le tracce. Nascondere il coltello.
Un brivido di paura mi fa vibrare la pelle.
Doralys mi attende per pranzo.
Adesso è tempo di rientrare.

Continua…

Copyright di Gordiano Lupi (lupi@infol.it)

© Gordiano Lupi

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