Sangue Tropicale 2° parte di Gordiano Lupi

image_pdfSalva il Pdfimage_printStampa

5. Il rito

Eccomi nella casa del santéro. Doralys è vestita di bianco, come d’abitudine. Dicono loro che quando “prendono il santo” è come se nascessero di nuovo e il bianco significa purezza. Doralys è da poco che ha messo l’abito e deve tenerlo un anno. Per fortuna non le hanno imposto di tagliare i lunghi capelli. A qualcuno succede. Come proibiscono certi cibi o determinate acconciature. Lei deve solo vestirsi di bianco. A volte per intero, in altri casi è sufficiente un turbante.
La boveda, un vero e proprio altare, è coperta da una tovaglia bianca. Su di essa sono disposte nove coppe per l’acqua. Ognuna è dedicata a uno spirito dei morti. Al centro c’è una coppa più grande, di porcellana. A fianco vedo il solito bastone, che chiamano palo e che serve per il rito propiziatorio.
Il rito sta per cominciare e tutti i partecipanti si avviano verso la boveda per deporvi fiori variopinti, sigari, rum, dolci, cibo, tazzine di caffè e crocefissi. Poi arriva anche una catinella di alcol aromatico, fondamentale. La chiamano acqua di Florida, non so perché. Forse perché qui vedono la Florida come un paradiso in terra, una specie di sogno irraggiungibile.
Il santéro è vestito di rosso e nero, con un turbante bianco. Imbraccia il palo ornato di nastri colorati e comincia l’invocazione a Elegguá.
Scuote una specie di sonaglio che emette rumori da campanaccio arrugginito, versa un poco di vino di palma per terra, poi comincia a pregare. La voce è come una cantilena ed esce con fatica dalla bocca. La sua barba nera si contorce in una smorfia che prelude alla possessione da parte dello spirito.
L’eggun, come chiamano lo spirito del morto, sta ascoltando. O almeno così credono.
Olojó oni, mo jubá
Ilá oorún, mo jubá
Iwo oorún, mo jubá
Ariwá, mo jubá
Guusú, mo jubá
Akodá, mo jubá
Asedá, mo jubá
Ilé, mo jubá
Esú odará, mo jubá
Bí ekolú ba jubá ilé, ilé
A lanu
Omodé ki ijubá,
kí ibá pá á.

Io sono soltanto uno spettatore esterrefatto di questa cerimonia, che si sta svolgendo al buio di una cantina, illuminata da poche candele sparse qua e là per la stanza. Il sole è tramontato da poco.
Saremo venti persone, molte le donne vestite di bianco, meno gli uomini. Di certo sono l’unico straniero.
Adesso il santéro prende un gallo nero e lo alza al cielo. È mutilato del becco e di parte delle zampe. Le piume sono state strappate a una a una. Tutti i presenti rispondono in coro la loro invocazione rituale: “Ibá a se”, che poi vuol solo dire “così sia”. Il gallo viene sgozzato e il sangue defluisce su di una bacinella. Dicono che allontani il male e che preservi dalle disgrazie.
A me, a dire il vero, fa soltanto schifo. È una parte della cerimonia che non riesco mai a digerire. Volto lo sguardo per un attimo, poi ritorno sul santéro. Vedo la sua bocca spalancata in suoni gutturali, pronuncia parole in uno spagnolo sgrammaticato frammisto di espressioni africane. È posseduto dal santo, parla attraverso di lui. Non è più la sua voce, ma è Elegguá che si manifesta, l’eggun evocato che parla ai fedeli.
Io me ne sto da parte e guardo, meravigliato. Non credo, questo è certo. I riti della santéria non fanno parte della mia cultura. Comprendo poco, però sono affascinato. La trasformazione del sacerdote sembra vera. Sembra parlare con voce che viene dall’oltretomba. Se recita lo fa davvero bene.
D’un tratto lo vedo arrestarsi, come impietrito. I suoni gutturali divengono ancora più duri. Lo spagnolo scorretto si modifica in una lingua incomprensibile. Lo spirito è adirato. La coppa in porcellana, quella grande al centro della boveda, piena di acqua di Florida, sta gorgogliando. Si è riempita di bolle. È un segnale di pericolo. Questo lo so perché me lo ha insegnato Doralys. Vuol dire che uno spirito negativo è tra di noi.
Il sacerdote si contorce e grida. Adesso lo sento distintamente. La sua lingua è pura, non è più quella commistione di spagnolo e africano che udivo prima. Comprendo tutto quello che dice. Il santo non può essere evocato, perché c’è una presenza maligna che lo impedisce. Si rifiuta di venir fuori e di parlare con noi. Non capirò mai come fanno a fare questo trucco delle bolle. L’acqua che pare surriscaldarsi, la coppa che trema.
Il santéro interrompe la cerimonia e parla.
“Elegguá è adirato. Uno spirito maligno è in questa casa. Dobbiamo liberarcene o la sua punizione ricadrà su di noi”.
Doralys pare spaventata.
“Cosa sta accadendo? Non mi ero mai trovata in una situazione come questa”, dice.
“Non crederai davvero a tutto questo?”, rispondo.
“Tu non puoi capire. Siamo in pericolo. Il sacerdote non si sbaglia. Non si è mai sbagliato”.

Ha paura. Lo sento. È in preda al terrore. Mi abbraccia forte e trema. Il suo cuore batte a ritmi forsennati. Sta sudando freddo.
Il santéro sospende la cerimonia. La presenza negativa non abbandona la stanza e la coppa ribolle sempre più. Il sangue del gallo ha fatto dei grumi nerastri. La noce di cocco, spezzata per divinare il futuro, ha assunto una posizione a raggiera che significa soltanto disgrazie.
Intorno a me c’è solo costernazione e spavento.
“Cosa potrà accadere?”, chiede Doralys.
Io la guardo e non so che rispondere. Un po’ sono infastidito, un po’ sono incredulo. Mi sento preso in giro da tutta quella messa in scena. L’abbraccio forte e la rassicuro.
“Niente. Cosa vuoi che accada… Adesso ce ne andiamo a casa e ci mangiamo il nostro piatto di riso con i fagioli neri. Poi ci facciamo quel pezzo di pollo fritto in padella e non ci pensiamo più”. Lei non mi ascolta neppure. È terrorizzata. Le mie parole non servono a niente. Anzi la irritano.
“Ma non hai visto quello che è successo? Come puoi non credere?”.
Adesso però è troppo. Sono davvero seccato.
“Doralys, io vengo con te perché tutto questo mi diverte. Ma non chiedermi di credere. In vita mia non ho mai creduto a niente”.
A un certo punto il santéro la chiama. Lei si avvicina all’uomo. Dalla mia postazione riesco a vedere movimenti rapidi e le smorfie dei loro volti. Non altro. Soprattutto non riesco a sentire cosa si dicono. Il dialogo è rapido e serrato. Entrambi sembrano molto agitati. Lei torna da me ed è sempre più spaventa. Mi guarda fisso negli occhi, quasi con raccapriccio. È uno sguardo che non le conosco, abituato come sono alla sua dolcezza infinita.
Usciamo, nella quiete della sera. Lei ha i capelli spettinati e il viso sconvolto. L’abito bianco le dona, penso. La fa sembrare ancora più bella. Riesco solo a considerare che quella strana cerimonia, per una sera, ha distolto la mia mente dal pazzo assassino che mi porto dentro.

6. Un tranquillo dopocena

Seduto al fresco del mio frambojant assaporo un bicchiere abbondante di rum. A me il rum piace con il ghiaccio, anche se gli amici cubani mi guardano e sorridono. Sono pur sempre un europeo e conservo le mie abitudini. Loro bevono rum come fosse acqua, a ogni ora del giorno, puro, attaccandosi al collo della bottiglia. Io non ci riesco. Mi spaccherei lo stomaco soltanto a pensarlo. Con il ghiaccio mi disseta e mi rinfresca. Non pare neppure che abbia i quaranta gradi che dice l’etichetta. E poi sono europeo anche nella scelta del rum. I cubani bevono una cosa disgustosa e forte di colore bianco. Sembra acqua e loro la chiamano cispes de tren, scintille di treno. Costa venti pesos al litro. Alla portata di tutti. L’ho assaggiato una volta e mi è bastato. È alcol puro, un vero spaccabudella. Io sono un raffinato. Havana Club sette anni. Posso permettermelo. Mi piace il colore ambrato e il profumo che emana. Non cambio mai. Ho provato a bere quello invecchiato soltanto cinque anni. Mi disgusta. Per non parlare del rum americano o di quello che facevano a Santiago e ora pare che lo producano alle Bahamas. Poi non sono un gran bevitore. Mi piace gustare un bicchierino al fresco della sera, ma non sono un consumatore dozzinale come la maggior parte dei cubani. E quando bevo voglio bere bene.
Doralys sta terminando le faccende di casa.
La radio è accesa, come sempre. Note di musica tropicale precedono notizie che non sono notizie, ma bollettini di regime ai quali si fa finta di credere. Una voce martellante indica l’ora e il minuto del giorno, subito dopo aver comunicato il messaggio. Come se il tempo fosse importante in un mondo dove la vita scorre lentamente e con ritmi naturali. Si chiama Radio Reloje e trasmette tutto il giorno parole e canzoni, intervallate da una voce austera, grigia, impersonale che ci ricorda dove siamo e a che minuto del giorno.
La chiamo. Doralys si avvicina e sorride. Però non pare il sorriso di sempre. Dopo la cerimonia dell’altra sera la vedo preoccupata.
“Cosa c’è che non va?”, chiedo.
“Niente. Sono soltanto un po’ pensierosa. Tutto qua”.
“Ancora per la storia del rito?”.
“Non è una storia, Giovanni. Raul è una persona seria e lo sai bene”.
In effetti quell’uomo mi ha sempre ispirato fiducia. Non credo alla loro strana religione, come non sono mai riuscito a credere alla mia d’altra parte, ma stimo Raul. Non è uno dei tanti ciarlatani che si approfittano della credulità popolare. Lui è convinto, questo è certo. E spesso ha fatto anche del bene. Ha guarito molte persone utilizzando il suo carisma. Medici importanti dell’Avana gli mandano i clienti più difficili. Su chi soffre di malattie psicosomatiche i santéri hanno un potere straordinario.
“Ti ha detto qualcosa che ti ha spaventata?”, le domando.
“No, assolutamente. Perché me lo chiedi? È solo che l’interruzione della cerimonia mi ha un po’ disorientata”.
“Non era mai successo?”
“A me no, però mio padre raccontava che una volta partecipò a un rituale dove scoprirono un uomo posseduto da uno spirito maligno e lo uccisero sul posto, sacrificandolo al santo”.
“Addirittura…”
“Gli spiriti maligni vanno abbattuti, se non c’è altro rimedio”.
“Spero di non dover mai partecipare a cerimonie del genere”.
“Lo spero anch’io. Non sono cose che mi entusiasmano. Neppure Raul è per i metodi cruenti. Lui dice che prima dobbiamo provare a purificare il portatore dello spirito negativo”.
Termino di sorseggiare il rum. Il ghiaccio è quasi completamente sciolto. Penso che sono capitato in un mondo davvero strano e che la mia vita è cambiata parecchio negli ultimi tempi.
“La prossima volta è meglio che ti lasci andare da sola. Non vorrei che la mia miscredenza condizionasse il rito”.
Doralys pare preoccupata.
“Forse sì” dice “forse è meglio”.
“E poi non vorrei trovarmi nel bel mezzo di qualche esecuzione sommaria”, dico sorridendo.
Doralys invece non sorride, anzi è seria più che mai. La sua bocca si chiude in una smorfia di contrarietà. Il ricordo del rito interrotto pervade i suoi pensieri e non la fa stare tranquilla.
All’improvviso si alza ed entra in casa. La telenovela della sera l’attende e non può perdere l’ultima puntata. È una passione che accomuna la parte femminile di questo popolo. La televisione di regime non è gran cosa. I programmi iniziano alle sei con qualche cartone per i ragazzi. Brutti e privi di qualsiasi attrattiva. Spesso sono di importazione sovietica. I russi saranno stati dei grandi guerrieri e dei formidabili scienziati, però i disegni animati proprio non li sanno fare. Soltanto il sabato ci sono i film, anche americani, talvolta anche belli. La domenica è festa grande perché c’è il Matiné infantil con i cartoni animati di Walt Disney. E il venerdì non si può perdere il programma comico Pateando la lata, che tiene incollata al video tutta la popolazione. Non è un granché la televisione di Fidel. Sembra un contenitore vuoto in attesa dei suoi sermoni serali. Puntuali, come sempre, alle sette e trenta. Allora il suo faccione barbuto e invecchiato esce dallo schermo in primo piano. Ma lo ascoltano sempre meno. Nonostante il carisma. Nonostante i ricordi. I cubani preferiscono le telenovelas. Si appassionano alle avventure di donne di umili origini che finiscono per sposare grandi signori.
E sognano con loro.
Io rimango solo, mi verso ancora un po’ di rum nel bicchiere e godo del fresco della sera sotto il mio albero preferito. Una luna alta e luminosa fa compagnia ai miei pensieri. In questo momento ho problemi più grandi di un fottuto santéro che sente gli spiriti maligni. Ma Doralys mi vuole così bene che non posso fare a meno di accontentarla. In fondo non mi chiede molto. Solo di condividere una cosa in cui crede.
Bevo il mio rum ed entro in casa anch’io.
Vedere un po’ di televisione forse mi aiuterà a non pensare.

7. Terza vittima

La notte è il momento peggiore. Mi prende il tarlo della follia e non posso fermarlo. Mi lascio assalire e non oppongo nessuna resistenza. Non posso, perché è troppo più forte di me. I pensieri lasciano il posto all’azione e alla solita assurda voglia di sangue. E da un po’ di tempo accade sempre più spesso.
Finirà che non passerà notte senza che mi assalga il desiderio di colpire. Finirà che mi prenderanno, perché non potrò farla franca in eterno. Il timore mi abbandona subito. I pensieri si modificano e rapidamente ho soltanto il tempo di accorgermi che non sono più in grado di controllare il mio corpo.
So solo che devo uscire e che l’assurda caccia di questa nuova notte può avere inizio. Abbandono il letto dove Doralys dorme tranquilla. Non può neppure immaginarsi quel che è diventato suo marito. Non riesco a rendermene conto neppure io.
Esco di casa infilandomi un paio di pantaloni e una maglietta a maniche lunghe. Di notte fa fresco in questa stagione. Siamo ai tropici, ma è pur sempre gennaio.
Mi dirigo a passi rapidi verso il mare.
Non è lontano. Posso arrivarci in meno di mezz’ora. Mi piace il mare con il suo sapore di salmastro. Mi ha sempre affascinato. Frammisto con l’odore del sangue è una cosa sublime. E poi sul mare a quest’ora ci sono le puttane che adescano clienti. Cercano turisti che non hanno tempo da perdere per complicazioni sentimentali. Una di loro troverà il mio coltello, questo è certo.
Non ho ancora ammazzato una puttana.
Soltanto ragazzine.
Credo questa notte sia quella giusta per rimediare.
Procedo rapido lungo la strada sterrata. Il selciato è sconnesso, pieno di buche. Cammino radente al fossato che separa la strada dai campi. Intorno a me il paesaggio di sempre. La luna piena e le stelle illuminano palme dal fusto esile che protendono i rami sin quasi a toccarle. L’odore del frambojant mi penetra le narici, come il sapore del mare che viene da poco lontano.
La strada diventa più illuminata. Poco distante c’è qualcuno.
Un gruppo di puttane attende un incontro.
E stasera l’incontro sono io. Sfortunatamente.
Individuo la più isolata. È giovane e piuttosto carina. Ha capelli biondi ossigenati e carnagione ambrata. Veste una gonna corta che scopre le lunghe gambe e le forme di un sedere rotondo e sodo. Non avrà neppure diciotto anni. Proprio quello che fa per me. Quello che cerco stanotte. Il sapore intenso d’una donna di vita e l’ingenuo candore d’una ragazzina.
Mi avvicino a lei e le chiedo il prezzo.
Cinquanta dollari, risponde.
Sono rincarate le puttane, mi dico. Poi accetto.
Andiamo dietro una siepe, dove ha predisposto un giaciglio di fortuna per i pochi clienti che non hanno un mezzo o un albergo dove portarla. La vedo meravigliata perché si è accorta che non sono cubano. Penserà che sono un tipo originale, uno che gli piace farlo per strada, in campagna, tra l’erba bagnata. Non può immaginare quanto è fuori dall’ordinario quello che sto per farle.
Facciamo l’amore. Rapidamente, come si fa con una puttana in ogni parte del mondo. Senza preliminari, senza eccitazione. Lei non prova neppure a fingere.
“Puoi darmi solo questo per cinquanta dollari?”, chiedo.
“Cosa pretendi? Questo passa il convento…”.
E sorride con una punta di sarcasmo.
Non ha capito ancora che stanotte c’è poco da sorridere.
“Molto di più”, dico.
Estraggo il coltello e glielo pianto in petto. Con forza.
“Voglio vedere il colore del tuo sangue”, concludo.
Non fa neppure in tempo a gridare. Rimane sdraiata a terra. Immobile. Il colpo è rapido e secco. Va a scavarle le viscere. Il sangue esce abbondante e bagna il giaciglio erboso. Sono inebriato dal suo profumo. Adesso sono io che sorrido, cara la mia puttana. In lontananza odo le onde del mare che si infrangono sulle scogliere e il vento porta con sé un odore di salmastro acre e pungente.
Estraggo il coltello e riprendo i miei cinquanta dollari.
“Non valevi tanto”, penso.
Un volo di uccelli marini mi fa alzare la testa verso il cielo.
Ci sono anche i grandi avvoltoi, gli auras spettrali e neri delle notti cubane. Adesso avete di che sfamarvi piccoli miei.
Aspiro a larghe boccate il profumo della nuova vittima.
Il coltello è caldo, come il suo sangue. Lo guardo estasiato per un momento. Poi penso che dovrò pulirlo bene per non lasciare nessuna traccia. Vorrei tuffare le mani in quel corpo e nelle viscere aperte della ragazza, ma non posso. Sarebbe troppo pericoloso. Mentre scappo via dal luogo del delitto ricordo ogni istante della mia ultima impresa. E d’un tratto mi viene a mente che devo andare a casa perché là c’è chi mi attende.
La mia casa, il mio rifugio sicuro, lo scrigno che conserva la mia nuova vita. Doralys starà dormendo. E io devo fare piano, perché non debbo assolutamente svegliarla.

8. Interludio di Doralys

Ripenso alle parole del santéro. È vero che mi hanno spaventato. Ma come posso confidarmi con Giovanni? Come posso dirgli che è a causa sua che la cerimonia è stata interrotta?
Raul mi ha detto che il mio uomo è posseduto da uno spirito maligno. Gli hanno fatto una brujeria, di certo è stato un palero non battezzato. Ce ne sono tanti tra L’Avana e Guanabacoa che hanno una prenda haitiana che fa solo del male. Lavorano indisturbati con la stregoneria e la magia nera, risvegliano gli spiriti dei morti e ne profanano i sepolcri. Ridestano anime di pazzi e criminali incalliti. Fanno sacrifici ai morti e maledicono una vittima.
Come posso non essere preoccupata? Per me, per il mio Giovanni, per la nostra tranquillità. Lui è l’uomo più docile di questo mondo. È scappato dalla sua terra per cambiare vita e adesso si trova a lottare contro un nemico invisibile. E lui non sa niente. Non immagina neppure quanto possa essere pericoloso il male che cova in corpo. Raul mi ha assicurato che stasera proverà a toglierla questa brujeria, che ricorrerà a tutte le sue magie. Andrò da sola, perché Giovanni non deve sospettare niente.
Appena dopo il tramonto il santéro mi attende.

Alle sei di sera tutto è pronto. La luna in cielo è quella giusta, piena e splendente in una notte appena rinfrescata da un refolo di vento di mare. Ho il vestito bianco e l’immagine di Elegguá ben stretta tra le mani tremanti. Ho paura, non posso negarlo. Raul ha preparato una prenda e adesso invoca Changó, la divinità più forte, quella che sola può decidere se propendere per il bene o per il male. Nella casseruola ci sono ossa di morto e un teschio, accanto alle spezie aromatiche. Il morto è un medico, spiega Raul. Una persona per bene. Hanno profanato una tomba al cimitero di Guanabacoa e hanno trafugato ciò che occorreva.
La comunità si raduna accanto alle luci soffuse, che brillano tutto intorno. Il santéro canta in una lingua a metà tra lo spagnolo e l’africano. Invoca Changó e attende la sua approvazione. Intona un canto propiziatorio per Elegguá e chiede di poter continuare nel rito. Le coppe disposte sulla boveda gorgogliano ancora, specialmente quella centrale. Il pericolo è incombente. Io sono intrisa del profumo di Giovanni e trasmetto segnali inquietanti.
Raul ha detto che lo spirito positivo curerà quello negativo. Deve solo riuscire a inviarlo nel corpo di Giovanni per vincere la battaglia contro il male.
Vedo il santéro che si contorce in una smorfia di dolore. Lotta contro qualcosa che sembra essere più forte di lui. Il sangue di un capretto decapitato defluisce nella casseruola. Terra di cimitero, rane spellate, caffè, rum e fumo di sigaro sono le offerte presentate agli eggun. Però Changó non è propizio questa sera. È una lotta furente, ai limiti della resistenza umana, quella tra il santéro e lo spirito del male. La brujeria è più forte. L’evocazione s’interrompe, di nuovo.
“Non è il momento” conclude Raul “gli orishas sono adirati con noi. Occorre attendere e sacrificare. Servono doni e pazienza. Changó ci aiuterà e ci consiglierà la strada giusta”.
Sono distrutta. Il mio uomo è in pericolo e per me attendere vuol dire rischiare sempre più di perderlo. Ma so bene che soltanto Raul può aiutarmi.

Esco dalla casa del santéro con la testa piena di pensieri che sembrano volare via nell’aria fresca della notte. Gli avvoltoi perlustrano il cielo e non è un buon presagio.
Giovanni sarà a casa davanti al suo bicchiere di rum, oppure starà giocando a domino con gli amici. Devo rientrare e non tradire nessuna emozione, perché la lotta è ancora lunga e non si sa cosa potrà accadere. Uno spirito maligno può portarti a fare di tutto. Può cambiarti il carattere. Un maleficio come quello può portare un uomo alla morte e Giovanni non sa niente di quel che gli sta accadendo. Anche se glielo dicessi non mi crederebbe. Per lui la santéria sono soltanto sciocche superstizioni. E poi non posso parlare perché l’ho promesso al santéro. Solo così posso aiutarlo.

Sorvegliare e riferire è il mio compito. Controllare i cambiamenti di umore e tutto quello che può sembrare strano.
Affretto il passo verso casa. Non abitiamo lontani. Vedo già il nostro giardino. Quando apro il cancello mi rendo conto che Giovanni non c’è.
Dove sarà andato? Non esce mai prima di cena.
È sempre così abitudinario…
E poi non mi ha lasciato nessun messaggio. Non è da lui.
In camera c’è una gran confusione. Vestiti per terra. Cassetti in disordine. Sembra che si sia cambiato in fretta e che non abbia avuto il tempo di mettere niente a posto.
Giovanni è sempre così preciso….
Sono davvero preoccupata. Può essere accaduto di tutto.
Uno spirito diabolico gli sta divorando l’anima.
Posso solo uscire nella notte e cercarlo.
Spingere la mia paura nei vicoli bui che racchiudono i suoi passi.
E sperare solo che non sia troppo tardi.
Può commettere qualsiasi pazzia, purtroppo.
Non è più lui. Non è più il mio Giovanni.
Una folle presenza me l’ha portato via.
Raul mi ha detto che devo controllarlo sempre e che è pericoloso lasciarlo solo. Ma che cosa posso fare? Non so dove cercarlo. Potrebbe essere ovunque. Al Parque Central, verso il mare, tra i campi che conducono a Guanabo, per i vicoli della città vecchia, tra le cadenti case coloniali….
E poi che cosa starà facendo?
Corro per le strade male illuminate del mio quartiere. Questa città mi ha visto nascere e soffrire. È la città di mio padre. Devo essere degna di lui e seguire il suo esempio. Non aveva paura di niente, mio padre. Per difendermi avrebbe dato la vita. Ero una bambina quando lui morì, in quella stanza di ospedale. Si impiccò alla doccia del bagno perché era ammalato di tumore. “A che serve un uomo malato?” aveva lasciato scritto su di un pezzo di carta ingiallita “Se devo essere un peso, allora è giusto morire”. Mi era sembrato tutto così strano e avevo pianto tanto, però mio padre lo ricordo come un eroe, uno di quelli uomini che sanno sempre prendere la decisione giusta. Adesso è giunto il mio momento. Devo essere capace di prendere le mie decisioni.

                                                                                                             Continua…

Copyright di Gordiano Lupi (lupi@infol.it)

© Gordiano Lupi

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.