Sangue Tropicale 3° e ultima parte di Gordiano Lupi

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9. Quarta vittima

Ho approfittato dell’assenza di Doralys e adesso sono qui, alla festa del barrio. Non potevo non farlo. Una voce che veniva da dentro mi diceva che era l’occasione migliore. Irripetibile. Un’altra festa popolare tra musica e birra. Giovani corpi sotto la flebile luce di pochi lampioni cadenti. Pelle ambrata e occhi neri, riflessi sotto la luna d’una sera d’inverno. Un inverno caldo e dolce. Un inverno tropicale riscaldato da lacrime e sangue.
Ho il corpo che freme solo a sentirla quella musica. So che all’angolo della strada principale ci sono ragazzine dai vestiti provocanti che esibiscono corpi acerbi in danze sensuali. Una di loro finirà tra le mie braccia e stasera incontrerà il mio coltello. Siamo entrambi molto soli e abbiamo una gran voglia di soddisfare le nostre voglie.
Lo faremo tra breve. Di nuovo voleremo nel vento, intonando una macabra musica di morte. La salsa non fa per me. Preferisco i ritmi di una lama affilata e godo nel vedere la vittima che geme, mi piace scolpire nei volti lo spavento. Diventare una cosa sola con l’arma affilata che stringo tra le mani. Vedere quel liquido rosso che esce da un corpo senza vita. Per me sono tutte sensazioni nuove ma da quando ho iniziato a provarle non posso più farne a meno.
Musica e felicità. Sorrisi dipinti sui loro volti.
La ballerina più bella e sensuale è davanti ai miei occhi stupefatti ed eccitati. Qui sono tutti bravi a ballare. Hanno la musica nel sangue. Le donne più che mai. La musica è la colonna sonora della loro vita. Per quella ragazza creola la musica sta cambiando. Ho preparato una sinfonia che l’accompagnerà alla tomba. Può starne certa.
Mi avvicino al gruppo che balla.
Ragazzi e ragazze giovanissimi che scandiscono il tempo con le mani e con il corpo e accompagnano le voluttuose esibizioni della ragazza.
Confondo i miei passi con i loro.
Bella. Giovane. Sorridente.
Proprio come piacciono a me.
Mi getto nella mischia e comincio a ballare accanto a lei.
Mi sorride. Il sorriso non manca mai a questa gente.
Hai poco da sorridere, cara puttana. Penso.
Ha capito che sono uno straniero. Si può sempre ottenere qualcosa da uno yuma. Così è bene sorridere e invitarlo a ballare. Può accadere di tutto.
Quello che non sai, cara la mia creola, è che stanotte possono capitare solo cose spiacevoli.
La musica mi prende e mi muovo con rapidità.
Non ho la naturalezza di un cubano, però me la cavo.
Il profumo della ragazza mi avvolge e mi inebria.

La osservo mentre dimena il sedere a ritmo di salsa. Ha la pelle abbronzata e gli occhi neri. I capelli lunghi le scendono sulle spalle fino a toccare le natiche. Un corpo perfetto, fasciato da una gonna corta che si solleva a ogni giro di danza. Ha gambe lunghe e stupende. Un sedere mozzafiato che asseconda i movimenti del corpo. Ho voglia di toccarla e accarezzarle il seno, morderle i fianchi, baciarla. Scoprire i profumi segreti del suo giovane corpo. E ucciderla. Soprattutto ucciderla.
Parlo con lei mentre balliamo. La invito a bere qualcosa.
Non può rifiutare. Si può sempre racimolare qualche dollaro da uno straniero. E a casa manca di tutto. Lei non immagina che stasera a casa non riporterà neppure il suo corpo.
Bella e sorridente, proprio come piacciono a me.
Giovanissima soprattutto. Avrà diciotto anni.
Ci appartiamo poco lontano dalla festa, vicino a una caffetteria di strada, improvvisata tra due assi di legno.
Lei beve succo di mango. Io rum. Parliamo.
Non mi interessa quello che dice, ma come lo dice. Studio il movimento delle labbra. Ogni parola è una musica soave che alimenta sempre più la mia eccitazione.
Devo scoparla. Accarezzare quel corpo perfetto.
E poi ucciderla per assaporare il suo sangue.
Le chiedo di venire con me in un posto tranquillo, per stare un poco da soli. Accetta, con naturalezza.
Un angolo del barrio che confina con il parco è sempre buio. Non ci sono lampioni, è nascosto dalle siepi e dai rami frondosi di un frambojant. Ci sdraiamo sull’erba umida del prato. Le sbottono la camicetta, poi accarezzo i seni piccoli e turgidi. Scendo sui fianchi e perlustro la zona dei glutei. Sono sodi e rotondi. Facciamo l’amore nascosti in quell’angolo di parco. Nessuno può vederci. Quando la sento venire anche la mia eccitazione è al massimo. Eiaculo dentro di lei.
Mi ritiro esausto subito dopo.
Il coltello. Adesso tocca a lui.
Quando il colpo la trafigge e le spacca il cuore fotografa terrore e sorpresa. È così che mi piace. Adesso è ancora più bella. E lo sarà per sempre. Il sangue bagna la terra e colora l’erba, spargendo intorno il suo dolce profumo.
Ho poco tempo per contemplare il lavoro fatto. Sono stanco e la testa mi scoppia. Devo fuggire. Tornare a casa. Un conato di vomito improvviso mi viene alla gola. Vedo la ragazza uccisa e non comprendo. I soliti rimorsi. I soliti dubbi. I suoi occhi mi guardano e sono occhi privi di vita.
Come posso aver fatto questo?
Ritorno d’un tratto padrone d’un corpo impazzito e la mia mente sconvolta si placa in una smorfia di terrore.
Un giorno di questi mi prenderanno e non sarò neppure in grado di dire perché lo facevo, penso.
Corro disperato verso casa. Fuggire da me stesso è impossibile, però. Scappare dai rimorsi ancora di più.
Io sono l’assassino e solo distruggendomi potrei fermare la mano che violenta e uccide. Perché è la mia mano. Insanguinata e inconsapevole. Involontaria e terribile.
Doralys mi appare davanti come una folgorazione improvvisa.
Ha il volto stanco e preoccupato.
Per un breve istante riesce a placare il fiume di pensieri che riportano alla mente i miei terribili delitti.
La vedo che sta uscendo di casa.
Forse mi viene a cercare, penso.
Adesso mi vedrà così stravolto e sporco di terra.
Adesso capirà tutto.
E io non so che fare.
Doralys invece mi abbraccia e mi fa entrare.
“Mio Dio, che cosa hai fatto?” domanda.
Il coltello sporco di sangue parla da solo.
È nella tasca dei pantaloni.
E Doralys lo ha visto.

10. Confessione

Devo aver dormito almeno un paio d’ore. Mi sveglio con la bocca impastata e ho per compagno il solito dolore del rimorso.
Sono a casa, tra le lenzuola del mio letto e le cose che mi appartengono e mi danno conforto.
Vedo il crocefisso d’argento appeso alla parete, un ricordo della mia vecchia vita italiana. Vedo l’armadio a tre ante dove teniamo i vestiti. Vedo la lampada e il ventilatore a pale appesi al soffitto. Vedo Doralys accanto a me.
“Cosa è successo?” domanda preoccupata.
Sta piangendo. Lacrime rigano un volto da bambina.
Sapessi spiegarlo, almeno. Fossi in grado di dirlo.
“Ho visto il coltello. È sporco di sangue”, insiste.
Attende una risposta. Di sicuro non la sola che posso darle.
“Ho ucciso una ragazza” le dico d’un tratto “e non è la prima volta. Ma non so perché l’ho fatto. Proprio non lo so”.
Doralys si alza dal letto spaventata. Mi lascia la mano.
Ha paura, una tremenda paura. Temeva la mia risposta.
“L’omicida del giornale?” balbetta “Quello che violenta le donne e poi le uccide?”
Piange ancora. È un pianto isterico, nervoso.
“Perché proprio a noi? Chi può averti fatto questo?” chiede.
Non comprendo.
“Chi dovrebbe avermi fatto qualcosa, Doralys? Parla. Ti prego”.
Lei scuote la testa e si avvicina di nuovo.
“Solo Raul può aiutarci e adesso è giusto che tu sappia”.
“Cosa c’entra adesso la tua maledetta religione?”
“Purtroppo c’entra più di quanto tu possa immaginare”.
“Spiegati meglio”.
Doralys prova a parlare.
Mi confida tutto quello che sa e che mi ha taciuto.
“Ti hanno fatto un maleficio. Una brujeria omicida. Tu uccidi perché ti spingono a farlo. Ecco perché non comprendi. Ecco perché dopo hai rimorso e stai male. Quando violenti e uccidi sei in balia di uno spirito maligno. Dentro te vive l’anima di un criminale riportato in vita”.
Ascolto interdetto. Non so che dire.
“Ricordi il rito interrotto da una presenza maligna? Ebbene quella presenza era dentro di te”.
Le parole di Doralys sono come una scure che si abbatte sui miei pensieri. Spiegherebbero tutto, non c’è che dire. E io che non ho mai voluto credere a queste cose. Sono sempre stato convinto che si trattasse solo di pagliacciate per gente superstiziosa. La santéria per me era puro folklore.
Ma adesso è difficile continuare a pensarla così.
“Solo Raul ci può aiutare. Devo andare da lui domani stesso. Spero che i tempi siano maturi per fare il rito che ti libererà”, conclude Doralys.
La guardo. È ancora più bella quando le lacrime le rigano il volto da bambina. I profondi occhi neri brillano e sembrano rischiarare di nuovo il cammino per questa notte terribile.
Fortuna che ho lei. L’amore di una donna che crede in me.
“Sono un assassino che ha ucciso quattro donne. Un mostro. Non ti faccio schifo? Perché mi vuoi aiutare?” le chiedo.
“Non sei stato tu a uccidere. Uno spirito maligno ti consuma l’anima e vive dentro di te. Dobbiamo solo pensare a liberarti”.
Doralys mi prende la mano. La stessa mano che ha ucciso con un coltello affilato. Ha del coraggio, penso. Potrebbe succedermi anche con lei. Cerca di calmarmi e di farmi dormire. Mi accarezza i capelli sconvolti dal vento. Sto sudando e sento dolore in ogni parte del corpo. Vorrei dire tante cose ma non riesco ad articolare neppure una parola. Penso solo a chi può essere stato a ridurmi così, trasformandomi in un pazzo assassino in cerca di sangue. La domanda mi resta dentro e pare cadere nel silenzio della notte. Una notte buia priva di stelle. Una notte di dolore infinito. Io e Doralys pensiamo la stessa cosa e non troviamo una risposta. Perché non c’è una risposta. Almeno non adesso. Ci sono dubbi e ricordi. Paure inevitabili e sogni malati.
E affrontare la notte è difficile, come è duro pensare al risveglio. Sudato e sporco di sangue, disteso sul letto del nostro amore, posso solo attendere. La mia paura più grande è che succeda di nuovo. E soprattutto che accada nel momento sbagliato.

12. Interludio di Helene

Hernandez mi ha detto che adesso non c’è più niente da fare.
Il meccanismo è partito e non si può arrestare. L’eggun negativo si ritorcerebbe contro chi l’ha invocato. E io sono in preda ai rimorsi. Soltanto la gelosia mi ha fatto fare questo. Un amore perduto. Una vita che è tornata di miseria e sofferenza.
Giovanni è l’assassino che tormenta le notti di Guanabacoa. Le ragazze vivono incubi disperati e hanno paura persino a uscire di casa. La colpa di tutto questo è mia. Ho scatenato un killer maledetto e sanguinario. Leggo i giornali e soffro. La notte mi regala soltanto incubi e dolore. Ha ucciso una mia amica al Parque Central, dopo una festa di quartiere. So che è lui. Potrei fermarlo, ma accuserei me stessa. Non volevo scatenare tutto questo. Non sapevo quel che facevo. Intorno odo solo voci che corrono nel vento. Sono lamenti e accuse che accompagnano le mie sere. Sono le grida delle vittime del suo coltello e della mia follia. Tutto perché adesso mi ritrovo sola a contare pochi pesos che non bastano neppure per mangiare.
Ero la sua compagna e adesso eccomi qua.
Tutto è finito. La mia vita è tornata a essere la lotta di sempre. Abito vicino al Parque Central e lo vedo sempre passare. Lui adesso sta con un’altra. Una che incontravo spesso alla discoteca della Casa della Cultura. Giovanni diceva sempre che ero troppo giovane e che pensavo solo a divertirmi. Non ero adatta al suo tipo di vita. Non ero la donna che cercava. Sono andata bene soltanto finché ha avuto voglia del mio corpo. Poi mi ha gettata via, come una cosa che non serve più. Sono stata un’ingenua a fidarmi di uno straniero. Mi sembrava diverso. Sono tutti uguali, come dice mio padre. Vengono qui con i dollari in mano e si sentono dei gran signori. Perdono la testa. Pensano di comprare il cuore della gente con un mazzo di biglietti verdi.
Colpa di mia madre. Non gliela perdonerò mai. Sin da piccola mi diceva che ero bella e che non dovevo sprecarmi. Dovevo sposare uno straniero che risolvesse tutti i nostri problemi. E guarda che fine ho fatto. Sono il rifiuto del sultano, espulsa dall’harem perché è arrivata una più bella.
I cubani sono inaffidabili, diceva sempre mia madre. Bevono e picchiano le mogli. Non hanno mai un dollaro in tasca. E io ho fatto come voleva. Ho seguito i consigli.
Ho passato la mia giovinezza a caccia di stranieri.
Italiani, tedeschi, francesi, spagnoli. Tutto quel che trovavo andava bene. Prima o poi qualcuno si innamorerà, pensavo.
Poi è arrivato Giovanni e con lui credevo che fosse una cosa seria. Per un po’ lo è stato. Facevamo l’amore con trasporto. Lui mi diceva cose romantiche e mi faceva dei regali. Mi sentivo davvero bene con Giovanni. Una donna realizzata. Che importava se era molto più vecchio di me? Un bel giorno mi disse se volevo andare a vivere da lui. Per la gioia di mia madre e di tutta la famiglia. Si realizzava un sogno. La casa di Giovanni era grande e c’era pure un bel giardino. Tutta un’altra cosa rispetto all’appartamento cadente dove sono tornata a vivere.
Adesso che tutto è finito abbiamo i problemi di sempre.
Mangiare ogni giorno. E non è facile.
Ho ripreso a fare la vita. È l’unico modo per una donna di guadagnare qualcosa. La vita è tornata appesa a un filo sottile. Come per la maggior parte di noi.
Sono stata una compagna fedele. Non meritavo tutto questo.
Sarà per questo che sono andata da quel palero.
Mi sentivo umiliata, messa da parte.
Avevo voluto bene a Giovanni. Mi ero fidata di lui.
E lui non avrebbe dovuto farmi questo.
È stato dopo che l’ho rivisto in compagnia di lei, vicino al Parque Central. Erano abbracciati e felici. Andavano a una festa, proprio una di quelle che lui odiava e che con me non voleva frequentare. Troppa gente, diceva. Troppo rum. Ci scappa sempre l’ubriaco e poi mi tocca litigare, diceva. Invece con quella puttanella sembrava contento di ballare e far tardi. Dovevo fare qualcosa. Non poteva finire tutto così.
Fu una notte di luna piena che Hernandez mi accolse nella sua casa di periferia. Sembrava il periodo giusto per quello che dovevamo mettere in pratica. Lui era un palero non battezzato. Faceva cose di magia nera, dicevano.
Era il tipo che cercavo.
Entrai nella penombra della sua cantina. Fiaccole e volti di eggun trasfigurati dipingevano momenti di terrore dalle pareti annerite. Fumo e paura a ogni passo. Pensieri che si rincorrevano. Ma avevo deciso e non si poteva tornare indietro.
Hernandez mise mano alla prenda haitiana, una casseruola di alluminio piena di erbe e carcasse di uccelli. Intorno spezie piccanti e terra rimossa da una tomba del cimitero.
Il sepolcro profanato era quello di un criminale, mi disse.
Il cranio che aveva tra le mani era del solito assassino, così come la tibia che tirò fuori per invocare lo spirito.
Il palero percosse più volte il pavimento con il lungo osso umano, invocando lo spirito del morto. Lo vedevo cospargere la casseruola con rum e cenere di sigaro, mentre stava seduto sui talloni e colpiva con il pugno chiuso per tre volte il suolo. Fece tre mucchi di polvere da sparo, che andarono a coprire un simbolo per me incomprensibile. Poi dette fuoco alla polvere e attese le ripetute esplosioni. La sua voce era trasfigurata. Chiamava lo spirito e gli dava ordini secchi e perentori. Il sangue di un gallo, sgozzato vivo sotto i miei occhi impauriti, bagnò la casseruola e il suo contenuto.
“Adesso lo abbiamo in pugno” concluse sorridendo “possiamo farne cosa vogliamo”.
Ma non volevo ucciderlo. Sarebbe stato troppo semplice.
Volevo una vendetta lenta e terribile. Giovanni doveva rimpiangere di avermi fatto passare tutto questo. Avrebbe capito soltanto che stava cambiando e non avrebbe potuto farci niente. Doveva soltanto ubbidire, come un fantoccio.
Come quel fantoccio nero che il palero sollevava in alto e stringeva tra le mani, mentre il sangue del gallo sgozzato continuava a colare sulla casseruola e sul teschio decomposto.
Il fumo del sigaro e l’odore del rum versato sulle ceneri del criminale si confondevano al sapore del sangue e del corpo dell’animale ancora caldo.
Hernandez sorrise. Sapeva che l’esperimento era riuscito.
E adesso sono qui a rimpiangere. Pentita. Assalita da dubbi e rimorsi. Sono sempre stata povera, ma onesta. E mi rivedo trasformata in assassina. Per gelosia. Per distruggere la sua vita e quella di lei, della puttana che ha preso il mio posto. Mi faccio schifo e non ho più la forza di guardare in faccia la gente quando passo per strada.
Non posso lasciar finire tutto così.
Non posso.
Deve esserci ancora un modo.
Deve esserci ancora qualcosa da fare.
Parlerò con lui. Capirà, se un tempo mi ha amato.
Troveremo un santéro che ci aiuterà.
Sono stata una pazza, ma posso ancora salvare le nostre vite scellerate e quelle di altre ragazze innocenti.
Devo farlo, prima che sia troppo tardi.
La mia casa è povera. Pareti ingiallite e mobili invecchiati tra polvere e miseria. Solo due stanze, dove viviamo in tre persone. Una piccola cucina e una camera con due letti. Nient’altro. Un tavolo malfermo nelle gambe e quattro sedie di legno. Mio padre è a casa senza lavoro. Non serve a niente lavorare per lo stato, se la paga è di cinque dollari al mese.
Mia madre si arrangia come può e cerca di preparare qualcosa da mangiare almeno alla sera. Arrangiarsi è l’unico sistema possibile. Darsi da fare per non essere travolti dalla miseria.
Io avevo trovato il modo, ma è durato poco.
Per disperazione ho fatto ciò che non avrei mai pensato. Una folle gelosia e un rancore covato contro quella coppia così felice. E io che potevo essere al suo posto.
Ma adesso il rimorso è più forte di ogni rancore.
Andrò da Giovanni e parlerò. Sento che devo farlo.
Fosse l’ultima azione della mia vita.

13. Liberazione

La casa di Raul in una notte di luna piena. Il rito che tentiamo adesso deve risolvere tutto. Prima che sia troppo tardi.
Sono qui con il santéro e parliamo, a bassa voce.
Io e lui da soli. E dobbiamo farcela.
La prenda è sistemata, al solito posto di sempre. Ci sono tutti gli ingredienti che servono. Le ossa del morto, il sepolcro profanato e la terra rimossa sistemata intorno, il rum spruzzato sulla casseruola. Poi caffè, tabacco, cenere di sigaro.
Ma soprattutto c’è il teschio del medico offerto a Changó, la divinità più potente. La tibia che serve per il rituale è della stessa persona. Il bene contro il male. L’eggun positivo deve curare l’anima malata di Giovanni. L’anima che hanno fatto ammalare.
Raul scuote la tibia sul pavimento. Intorno a lui candele e colori smorzati. Non è un bel momento. Non è un’evocazione facile.
Il palero che ha fatto la brujeria è molto esperto e l’ha fatta a dovere. Non è facile toglierla. L’acqua di Florida nelle coppe gorgoglia come l’ultima volta. L’eggun negativo è presente, addirittura palpabile. Aleggia sui nostri corpi. Raul lo sente e comincia a evocare Changó. Frasi spagnole miste ad africano, parole incomprensibili e strane. Canti dolorosi che si perdono nella cantina dalle luci soffuse.
È il momento del sacrificio animale. Viene offerto un piccolo capretto. Macellato con una mannaia davanti ai miei occhi.
Il sangue scorre sulla prenda e sulla boveda allestita con panni di colore rosso e nero.
Sangue su sangue, penso. Dolore che si aggiunge a dolore.
Ma in ballo c’è tanto sangue umano e troppo ne è stato versato. Raul si concentra in preghiera e continua l’evocazione.
Non so dire se ce la farà. È davvero dura.
Lo vedo stanco e provato. Sta combattendo una battaglia difficile contro un nemico potente. E io non posso fare molto.
Solo pregare e avere fede. È il mio unico compito.

Sono a casa di Giovanni in questa notte di luna piena. Finalmente mi sono decisa a uscire e ho trovato il coraggio per affrontare la situazione. È solo, sta seduto sul divano del salotto. Ricordo che è il suo posto preferito per guardare la televisione. Ricordo anche che dopo usciva in giardino e sedeva sotto il frambojant per godersi la pace e il fresco della sera.
Lo chiamo, a voce alta, emozionata di parlare nuovamente con lui. Tutto sommato credo di volergli ancora bene. È stato sempre buono con me. E io gli ho fatto questo. Mi faccio veramente schifo. Mi ha sentito. Gira la testa verso di me e viene ad aprire. Pare sorpreso di vedermi. Entro e mi siedo accanto a lui.
Adesso viene il difficile. Adesso. Ma devo farlo.

Il santéro continua a invocare Changó ed Elegguá. Ma solo il primo ha il potere di aiutarci e può sopraffare le forze del male.
Il nostro eggun evocato pare volersi staccare dal mondo dei morti. Sentiamo la sua anima volare sopra le nostre teste. Il sangue del capretto forma grumi rossastri e il volto del santéro freme in smorfie di dolore. I mucchietti di polvere da sparo prendono fuoco ed esplodono. Il segnale è positivo. L’anima si è mossa e incontra meno resistenza del previsto.
Possiamo farcela. La lotta è lunga, ma possiamo farcela.

Non sono neppure stato ad ascoltare cosa diceva quella puttanella. Ricordo solo che una volta vivevamo insieme.
Non so neppure quanti anni fa. Questo non le dà il diritto di venire a piangere in casa mia. Non sopporto le donne che piangono e che chiedono scusa.
L’ho massacrata. Lei gridava e piangeva. Diceva che non voleva, che si era pentita. Pentita di che? Di essersi messa sulla mia strada, di sicuro. Non avevo il coltello. Doralys me l’ha nascosto. Ma quando torna ce ne saranno anche per lei. Non ho più bisogno di nessuno. Solo di uccidere. Mi sono bastate le mani. Più gridava e più godevo. L’ho strozzata e l’ho vista morire soffocata, mentre gridava perdono. Ma perdono di cosa? Avrei voluto scoparla, ma stavo troppo male. Non capivo una parola di quello che provava a dirmi. Parlava di fottuti santéri e di brujeria. Io provavo solo l’istinto di ucciderla.
E l’ho fatto. Chiudendole quella bocca maledetta.
Per sempre.

“Adesso è il momento peggiore” fa Raul “perché il suo potere è al massimo. L’eggun lo sta tenendo forte a sé e non vuole farsi sopraffare”.
Il santéro si contorce in una smorfia di dolore. Suda e prega. Canta e invoca Changó. È una battaglia dura. Lo spirito del bene sta tentando di penetrare un’anima perduta.
Poi, improvvisamente, c’è un’esplosione di luce nella stanza.
Uno spirito prende il volo, si libera dalla prenda e sfugge al mio sguardo. Non ho mai visto una cosa simile e spero di non vederla mai più. Sono terrorizzata, ma sento che qualcosa è successo.
“Ce l’abbiamo fatta”, dice Raul con un filo di voce.

14. Epilogo

La mia casa di Guanabacoa e un bicchiere di rum.
Il fresco della sera, come una volta, sotto il mio frambojant.
Non penso più alle vittime e a quel che sono stato.
Ho capito tutto, finalmente. Ho compreso chi stava dietro e muoveva i fili. Me lo ha confessato lei stessa e quando sono tornato in me tutto era chiaro. Forse è l’unica vittima che sono contento di aver massacrato. Ha avuto la sfortuna di capitarmi tra le mani nel momento peggiore della mia crisi.
Abbiamo bruciato il corpo. Non ci sono tracce.
Adesso il folle omicida del sobborgo avanero è scomparso. E io sono tornato a fare la mia vita e non desidero più scopare e uccidere ragazzine. L’unica donna che voglio è quella che ho accanto e che mi è stata sempre vicina.
Non sono più così scettico sulla santéria. Anzi, ho cominciato a fare dei sacrifici per “prendere il santo” e frequento con zelo i riti di Raul. Non ho capito molto di quello che è successo, ma so che lui è stato importante. Merita tutto il mio rispetto. Doralys dice che se non fosse stato per lui sarei finito male.
Penso che sia vero.
Rammento poco dei momenti di possessione, ma quel poco è sufficiente a scatenarmi dentro una tempesta di dolore.
Doralys è in cucina che prepara il caffè. Il mio solito Cubita, compagno inseparabile di questa vita che adesso è tornata quella di un tempo. L’attendo al fresco del giardino, ascoltando la musica rivoluzionaria di Carlos Puebla. Sono le canzoni del Che, quelle del vecchio son cubano. Hasta Siempre è la mia preferita. L’ascolterei in ogni momento. Bevendomi il mio Cubita.
Doralys porta con sé la tazzina fumante e sorride.
È un sorriso strano quello che brilla nei suoi occhi.
Ha sofferto tanto, povera cara e mi è stata così vicina in questi momenti. Dev’essere stata dura per lei. È stanca, tremendamente stanca. Tutti questi avvenimenti l’hanno sconvolta.
“Ecco il tuo caffè”, dice.
Lo bevo. D’un fiato. Mi perfora lo stomaco come una pugnalata. Come al solito. Questa volta più del solito. Sento dei dolori atroci, terribili. Prendo letteralmente fuoco. Cado a terra. Stravolto. Il dolore è insopportabile.
“Cosa mi sta succedendo?”, chiedo in preda ai dolori.
“Credo proprio che tu stia morendo”, risponde.
E comincia a ridere, con quel sorriso strano che le avevo visto poco prima e che si trasforma sempre più in un ghigno satanico.
La mia Doralys, la mia dolce Doralys non c’è più. Un essere diabolico ha preso il suo posto. E io sto morendo.
“Credo proprio che mi sia accaduto qualcosa durante l’evocazione. E dopo tutto meriti di essere la mia prima vittima”.
Nel momento in cui chiudo gli occhi per sempre vedo un sorriso diabolico deformarle il viso.
Doralys…
E pensare che eri così bella vestita di bianco.

 

                                                                                                           Fine

 

copyright di Gordiano Lupi (lupi@infol.it)

© Gordiano Lupi

 

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